Se c'è stato
bisogno, a un certo punto, di chiedere chi erano i Beatles,
immaginiamo ci sia tanto più bisogno, oggi, di dire almeno ai
più giovani chi era Jacques Brel.
Brel infatti viene da più
lontano, è stato per esempio il modello massimo della prima
generazione di cantautori italiani, quelli che comparvero agli
inizi degli anni Sessanta, quando a plasmare definitivamente
la forma canzone nel mondo non era ancora sopraggiunto il
linguaggio americano. La prima grande rivoluzione, la nostra
nouvelle vague, la "nuova canzone" portavano dunque l'impronta
della chanson francese, e segnatamente di Brel.
Se è vero che anche
Brassens influenzò molto i nostri
cantautori, in modo intenso, specifico e però (perciò)
circoscritto, l'influsso di Brel fu più indiretto e proprio
per questo più diffuso, più pervasivo, più insinuante. Non
stiamo parlando solo delle traduzioni che Duilio Del Prete,
Gino Paoli, Herbert Pagani, Bruno Lauzi,
Patty Pravo, Ornella
Vanoni, Dino Sarti, Enrico Medail, Joe Sentieri,
Franco
Visentin, Renato Dibì e altri hanno curato o inciso in
italiano. C'è tutto un gusto della parola cantata, vivo ancora
oggi, che porta la sua cifra. In Paoli, Tenco,
Gaber, Endrigo, Lauzi, De André,
Guccini, Vecchioni, in questi e altri ancora
c'è molto o un po' di Brel. Il crescendo di "L'ivrogne", o di
tanti altri brani di Brel, è quello che pari pari si trova in
Tenco ("Angela", "Io sì") o in Endrigo ("Viva Maddalena"). "E ti
regalerò quel che resta della mia gioventù" è un verso che Endrigo prende probabilmente da "La tendresse" ("Je t'offrirais
le temps qu'il reste de jeunesse") piuttosto che
dall'ottocentesco Lorenzo Stecchetti, alias Olindo Guerrini
("Vorrei poterti dar quel po' che resta della mia gioventù").
Il senso di "Seul" ritorna intatto nelle strofe finali del
"Testamento" di Fabrizio De André. Gli ubriachi di
Guccini che
"sputano al cielo come se avessero di fronte l'universo" ("Per
quando è tardi") sono i marinai di "Amsterdam" (un brano, tra
l'altro, che Guccini, pur senza averlo mai inciso, un tempo
cantava in concerto in una propria traduzione); e i "Quattro
amici" di Gino Paoli non assomigliano ai tre bourgeois che
blaterano al bar dell'hotel "Trois Faisans"? Ci sono intere
canzoni italiane che, pur non portando affatto la firma di
Brel, sembrano uscire direttamente dal suo repertorio, in
qualche caso al limite del plagio. "Dormi" di Paoli è "Dors ma
mie", "Ti amo" di Endrigo è "Je t'aime", tutto il teatro-canzone di
Giorgio Gaber nasce da Brel, a cominciare dal brano che gli
diede l'avvio, "Com'è bella la città". Addirittura.
Gaber non si
limita a citare esplicitamente "Les bourgeois" nella sua "I
borghesi", ma senza dichiararlo ripete palesemente Jef in
"L'amico" e modella "Ora che non son più innamorato" su "La chanson
des vieux amants". Anche Duilio Del Prete, al quale abbiamo
affidato la traduzione dell'opera integrale di Brel, è non a
caso un cantautore, e anch'egli uno della prima ora,
proveniente dalla scuola torinese dei Cantacronache (dove
l'altro modello imperante - quello di Fausto Amodei, per
intenderci - era proprio Brassens). Del Prete è inoltre un
attore apprezzato, di teatro e di cinema, il che non è
elemento da poco. Certamente è anche questa organica vocazione
allo spettacolo, infatti, che a cavallo tra gli anni Cinquanta
e Sessanta lo avvicina a Brel, ovvero a uno chansonnier che si
realizza al massimo grado non solo nella scrittura e nella
composizione, ma, contestualmente, nella sua interpretazione
teatral-musicale.
Chiunque, certo, può cantare queste canzoni, magari bene,
magari tradotte in un'altra lingua (anzi, questa può essere
una scappatoia più facilmente praticabile), ma mai come nel
caso di Brel la specificità artistica del repertorio trova
appagamento totale solo attraverso la voce, la faccia, la
mimica. Una voce sonora, affilata, nervosa, ora impettita, ora
saltellante, ora impetuosa, ora guizzante. Un canto nitido che
percorre e asseconda tutto il cammino del verso seguendone a
contatto diretto ogni saliscendi, accarezzandone le sinuosità
o rimbalzando sulle asperità. Una faccia da cavallo sofferente
(il male ai denti e alle gengive è sempre stato la sua croce),
soccorso però quasi sempre da un sorriso che tiene insieme lo
stupore bambino e l'humor adulto, la sfida e il candore, la
malizia e la tenerezza. Un volto concentrato nel triangolo
compreso tra la mobilità delle sopracciglia e quella della
sporgente mascella. Una figura dalle spalle strette e le
braccia lunghe, pinocchiesca nel suo vestituccio di carta
seta. Una gestualità che rasenta l'arte del mimo; che dà corpo
ed espressività, di volta in volta attraente o repulsiva, ai
vari personaggi, i quali per lo più non vengono descritti
dettagliatamente nei testi proprio perché è la pulsante
teatralità fisica dell'interprete a incarnarli e a muoverli,
ciascuno nelle sue particolarità. "Certi reietti, certi
bravacci teneri che in Brassens finirebbero per identificarsi
con l'autore-cantante - commenta in proposito Del Prete - in
Brel restano pur sempre esterni a lui, creature della sua
ironia". E anche quando canta il sentimento che gli è più
caro, la tenerezza, non ha bisogno in questo caso di
sottolinearlo con eccesso di espressività, non è mai
sdolcinato: la forza oggettiva della sua proposta è presentata
in maniera così indiscutibile che è sufficiente il semplice
porgerla candidamente, quasi con distacco o addirittura con un
pizzico di aggressività.
Il ritmo del suo canto, dunque, non è quello pedissequo dello
spartito, non combacia necessariamente con esso, ma è il
frutto di una sintesi prodigiosa tra il ritmo della parola,
quello della musica, quello della fisicità, quello psicologico
degli intimi stati d'animo. Il suo è un vero "recitare" che
però non smarrisce le cadenze doverose della musica. Chi non
l'ha mai visto in azione, fosse anche in video, non può sapere
che cosa sia una canzone a teatro. "Una canzone - spiegò lui
stesso - non è fatta solo per essere cantata, ma per essere
mimata, raccontata, e se tutto il mio corpo non aiuta il mio
testo, non è più una canzone".
"L'ultima volta che incontrai Brel - racconta
Duilio Del Prete
- fu in camerino, alla fine di uno dei recital che
concludevano la sua carriera teatrale. Era un cavallo stanco.
E non solo fisicamente. Aveva già deciso di lasciare il
palcoscenico. - Non succede più niente - diceva. Era
consapevole della propria impotenza, forse anche della propria
incapacità di scrivere canzoni più belle di quelle che non
avesse già scritto. Non poteva più eccellere in una civiltà
dove la creatività è condizionata dall'industria culturale e
dal mercato di massa. Posso dire, ora, che aveva ragione. Il
troppo stroppia. La possibilità colossale di consumare tutto
annulla la possibilità di informazione reale, di sapere dove
si fanno ancora le scarpe a mano, per quelle persone che hanno
piedi diversi o deformi, che hanno bisogni specifici e
altrimenti soffrono. In queste condizioni non c'è più il tempo
di fare il poeta.
Se, come Brel, sei un punto di riferimento al vertice, non
scappi più da questi meccanismi. Meglio il silenzio. O, come
fece lui, migrare altrove, nel cinema, nei viaggi...".
L'addio alle scene di Jacques Brel è in effetti un evento
pressoché unico nella storia dello spettacolo. Mille volte ci
sono stati artisti che hanno improvvisamente detto addio alla
musica o al teatro; ma mai hanno tenuto fede alla promessa.
Brel preannuncia il suo ritiro dall'attività live nel
1966 e,
dopo aver onorato gli impegni che già aveva assunto in mezzo
mondo, attua effettivamente il suo proposito, puntuale, nel
1967. Tutto ciò accade, incredibilmente, mentre egli è al
culmine del successo, tra gli osanna unanimi del suo pubblico
e le vendite-record dei suoi dischi. In Italia un'analogia,
più che in Mina e Battisti (discograficamente sempre
presenti), può ritrovarsi nel caso di Renato Carosone, che
abbandona completamente l'attività artistica anch'egli nel
momento di massima fortuna, e se quindici anni dopo ritorna in
pubblico, lo fa più che altro per divertissement personale...
PAGINA INSERITA IL 7 MARZO 2010