2007 - La piazza che la ricorda, Place
Dalida,
è qui nel cuore di Montmartre, all’incrocio fra l’allée des
Brouillards e la rue de l’Abreuvoir, poco distante dalla casa di
rue d’ Orchampt in cui una sera di vent’anni fa decise di
andarsene per sempre, una manciata di barbiturici, un semplice
biglietto: «La vita mi è insopportabile, scusatemi». Un busto in
bronzo dello scultore Alain
Aslan la
sovrasta, statistiche ufficiose sostengono che abbia lo stesso
numero di visitatori della chiesa del Sacro Cuore e la cosa in
sé non deve sorprendere. Il sondaggio Ifop del Duemila sulle due
artiste che in Francia hanno rappresentato il XX secolo vede il
nome di Edith
Piaf e
il suo, quello Sofre di quest’anno, relativo agli avvenimenti
che più sono rimasti impressi nella memoria dei francesi fra il
1968 e il 1988, vede il ritiro solitario di De
Gaulle
e
il suicidio nella solitudine di Dalida. Nella grande Sala Saint-Jean dell’Hôtel
de Ville,
la mostra Dalida,
une vie... allinea
i trofei e i record di una carriera d’eccezione: settanta dischi
d’oro, il primo disco di platino e il primo di diamante, 120
milioni di copie vendute, la cantante più pagata di tutto lo
show biz... Su uno schermo gigantesco si alternano le
registrazioni dei suoi spettacoli e delle sue canzoni, cabine
aperte, insonorizzate, permettono un karaoke dei suoi successi
più famosi, c’è spazio per i costumi di scena e gli abiti, gli
esordi cinematografici e la consacrazione come attrice
drammatica ne Il
sesto giorno di Youssef
Chanine.
A fianco del mito l’esposizione non nasconde la realtà, la
piccola Jolanda
Gigliotti,
italiana nata al Cairo, nel popolare quartiere di Choubra,
nipote di un sarto, figlia di un violinista, studi da
dattilografa, i primi concorsi di bellezza, il titolo di Miss
Egitto vinto
indossando un bikini panterato, il debutto sullo schermo con il
biblico nome d’arte di Dalila su
cui si appuntano le ironie dei critici egiziani: «Dove vuole
andare, senza Sansone?»... Eppure, quando ventunenne approda a
Parigi per tentare una carriera a cui in fondo non ha mai
pensato, quella di cantante, il successo arriva subito, il tempo
di un paio di dischi, e da allora non l’abbandonerà più, l’unica
a cui i francesi abbiano concesso di cantare senza arrotare la
erre... Nei trent’anni a seguire, come una salamandra Dalida
attraversa i generi musicali che si susseguono, da ciascuno
prende qualcosa, su ognuno lascia un’impronta. Ha una capacità
di lavoro e di tenuta impressionante, la aiutano la facilità
nelle lingue, retaggio di un’infanzia e di una giovinezza cariota meticcia negli incontri e nell’apprendistato, la voglia
di fare sempre meglio, il non tirarsi mai indietro.
Le immagini raccontano una
metamorfosi nella continuità. Sullo sfondo c’è sempre la stessa
bella ragazza, dai polsi e dalle caviglie sottili, lunghe mani
nervose, un’incredibile massa di capelli, che via via si raffina
e si affina, matura e si conquista uno stile, ma senza mai
snaturarsi, sempre riconoscibile, nel timbro della voce come
nella scelta di un vestito. È una sorta di radar interno che
nelle scelte artistiche non l’abbandona mai, e che però risulta
inservibile o fuori uso in quelle private, intime. La vita
sentimentale di Dalida è un susseguirsi di occasioni sbagliate e
di occasioni mancate, sempre e comunque con un elemento tragico
a renderle ancora più disperate. Il primo marito si chiama Lucien
Morisse,
è il suo pigmalione, l’uomo che l’ha lanciata. Si sposano
nell’aprile del 1961,
lui per lei ha divorziato, lei per lui ha accettato un ménage in
cui a lungo è stata niente più che «l’amante». Un mese dopo, al Festival
di Cannes,
Dalida incontra un pittore più giovane di lei, di poco talento
ma di molto fascino, Jean
Sobiesky,
se ne innamora, manda all’aria il matrimonio, per la prima
volta, e sarà anche l’ultima, si ritrova l’opinione pubblica
contraria. Alla sua rentrée all’Olympia,
nel dicembre dello stesso anno, in camerino le arrivano corone
mortuarie invece che mazzi di fiori... Eppure, come scriverà
Claude
Serraute nel
recensire il giorno dopo lo spettacolo, cantando lei trionfa
ancora una volta: «Ha rigirato i duemila spettatori come fossero
tante crêpes sulle poltrone». Lucien Morisse si ucciderà nel 1970,
ma intanto nella vita di Dalida è già entrato il suicidio di Luigi
Tenco,
nel gennaio del 1967,
e il suo tentato suicidio nemmeno un mese dopo. Anche Tenco è
più giovane, così come sarà per Richard
Chanfray,
antiquario parigino che nei giorni dispari sostiene di essere
figlio di Papillon, il celebre forzato evaso dalla Caienna le
cui memorie sono state un best-seller alla fine degli anni
Sessanta, e in quelli pari la reincarnazione del settecentesco
conte di Saint-Germain, di saper tramutare il piombo in oro e di
avere circa mille anni... «Non dimostra affatto la sua età»
replica lei con un certo umorismo, ma se Sabiesky era poco più
di un gigolo e Tenco un piccolo poeta fragile e depresso,
Chanfray è semplicemente un imbroglione. Si ammazzerà anche lui,
nel 1983,
ma intanto, e per quasi tutto il decennio dei Settanta, i due
hanno fatto coppia e insieme hanno persino inciso un disco...
Negli anni Settanta,
Dalida è una splendida quarantenne che non dimostra la sua età,
ma la teme. Ha inciso Il
venait d’avoir 18 ans, che è un po’ la sua autobiografia, il
tempo che passa, gli amori giovani che non durano e la lasciano
ancora più sola. È rimasta incinta di uno studente napoletano,
ha preferito abortire, sa che non potrà più avere figli, si
circonda di libri di psicanalisi, è attirata dal buddismo, va in
India. Più non riesce a mettere insieme la sua vita, più il
successo non la vuole abbandonare. È una cantante popolare, ma
piace agli intellettuali, è stata la madrina del 18° reggimento
paracadutisti d’Algeria, ma è anche l’ospite d’onore di François
Mitterrand ai
festeggiamenti per i 25 anni di vita parlamentare di
quest’ultimo, allora segretario del Partito socialista. Quando
incide Gigi
l’amoroso, una sorta di operina-rock che dura sette minuti e
mezzo, i giornali satirici ribattezzeranno Mitterrand, intanto
salito all’Eliseo come presidente della Repubblica, Mimi
l’amoroso...
Italiana ed egiziana, francese e mediorientale,
l’anno prima di togliersi la vita Dalida cerca un ritorno al
passato come soluzione per esorcizzare un futuro di cui ha ormai paura.
Youssef Chanine le
offre il ruolo cinematografico che ha sempre sognato, senza
paillettes, senza lustrini, senza trucco, i lunghi capelli
coperti da un velo, una donna sola, vedova e fiera, che non può
più amare, che vorrebbe ancora amare. Il film si chiama Il
sesto giorno, dall’omonimo romanzo di Andrée Chedid...
È un trionfo di critica che si accompagna al trionfo di pubblico
che la accoglie a Los Angeles nelle vesti consuete di regina
della scena musicale. È l’una e l’altra cosa, ma è
l’interpretazione nella vita di tutti i giorni che non le piace
più... Dirà di lei Charles
Aznavour che «con
la Piaf è stata la più grande interprete della canzone francese,
un’amica e una donna eccezionale». Dirà di lei Brigitte
Bardot: «In qualche modo era la mia sorella gemella. La
piango e la piangerò sempre perché era e resterà unica».
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