PER L'ULTIMA
MARLENE UN UOMO INVISIBILE - di Isabella Bossi Fedrigotti
- Tutto il male possibile di
Marlene Dietrich l' aveva già detto sua figlia, Maria Riva,
nella biografia che pubblicò l'anno scorso non appena la diva
fu seppellita, e che lei vivente non sarebbe mai stata
autorizzata. Ma come spesso succede quando una figlia
bistrattata o anche solo meno bella, meno fortunata, meno
baciata dal successo ricorda sua madre, in quelle memorie
Maria Riva si e' scordata della grandezza di Marlene, del
talento, della forza e della disciplina; della sua piccolezza
anche, ma umana, femminile, quotidiana e perciò vera, a volte
toccante, non da disprezzare a tutti costi. Presa dall' astio
accumulato negli anni, la figlia non e' mai riuscita a
togliersi gli occhiali neri che nel ricordo oscurano tutta
quanta la vita di sua madre, mai a rilassarsi, mai a fare
pace, nemmeno nel libro. Che sarebbe andata a finire più o
meno in questi termini, anche se forse non proprio così
astiosi, Marlene doveva esserselo immaginato. Non per niente,
poco tempo prima di morire, a un amico che le chiedeva un'
intervista sincera, non di maniera, corredata di qualche
ricordo personale, rispose: "I dettagli privati preferisco
lasciarli a mia figlia, per la mia biografia che sta
scrivendo". E lo disse, narra l' amico cui queste parole erano
rivolte, con l' ironia di chi sa che deve aspettarsi il
peggio, o quasi. L' amico e' lo scrittore francese Alain
Bosquet, marito di Norma, metà agente e metà segretaria che
fu vicina alla Dietrich durante gli ultimi quindici anni, dal
1977 al 1992, che ella trascorse a Parigi. Tra la diva e il
marito della sua assistente si stabilì presto un rapporto di affetto, di stima, di collaborazione, fatto di telefonate
e scambi di lettere, che durò fino alla morte: senza che i
due, per volontà di Marlene, per non sovrapporre, nella mente
di lui, alla sua immagine di mitica bellezza quella di una
vecchia in via di disfacimento, si incontrassero mai. Estremo
gesto di tenacissima femminilità, o civetteria? Ma non è
forse un classico femminile quello di cercare la complicità
dell' uomo, del marito dell' amica, regalando a lui
attenzioni, tenerezze e confidenze che non si sarebbe mai
sognata di concedere alla fedele assistente che pur vedeva
praticamente tutti i giorni?
Bosquet ha raccolto i ricordi di
questo lungo rapporto epistolare e telefonico in un libro
(Marlene Dietrich - Un amore per telefono, editore Il
Poligrafo) che, pur riecheggiando a grandi linee la
personalità dell' attrice (avara, sospettosa, egoista,
capricciosa, ossessionata di sé) come descritta dalla
figlia, contemporaneamente racconta di un' altra donna,
generosa, melanconica, sola, smarrita come una bambina,
patetica anche, ma anche e ancora grande. Certo il non averla
mai incontrata gli ha risparmiato un certo numero di scene e
scenette che alla figlia sono toccate per anni, e tuttavia
quella narrata da Bosquet nel suo piccolo libro ha l'aria di
essere una Marlene più vera che non quella rievocata nel
dettaglio di quattrocento pagine da Maria Riva. Ma potrebbe
anche essere che ciò dipenda semplicemente dal fatto che qui
e' uno scrittore che ricorda, mentre là era una cronista d'occasione. Da questo strano diario esce dunque una
Dietrich più mite e più umana, più accettabile per chi vuole
conservare il mito, continuare a guardare solo la parte
migliore della medaglia. E perfettamente "nel mito" sono per
esempio quei messaggi che lei gli manda, a volte
appassionatamente in tedesco, a volte sgrammaticatamente in
francese, in calce a fotografie di trenta, quaranta, cinquant'
anni prima, dove lei ancora guarda il mondo con gli occhi
languidi, il viso liscissimo, la bocca scura da Crudelia
Demon, sicura, vittoriosa e tenebrosa. Né sono da meno quei
suoi inaspettati colpi di generosità quando, sapendo l'amico
a letto influenzato, gli fa mandare due chili di carne di
vitello affinché la moglie ne faccia del buon brodo per lui.
Ci sono anche richieste di aiuto, non di denaro ma di affetto,
che potrebbero sembrare patetiche da parte di una diva
intercontinentale ("La solitudine è immensa, telefoni per
piacere quando le piace. Mi manca la sua intelligenza!"), ma
che suonano accorate, disperate in bocca a una donna di
novant' anni. E altrettanto disperata, non senza una certa
grandezza è la fiera risposta che Marlene dà a Bosquet, che
per l' ennesima volta la supplica di trasferirsi infine a
vivere dalla figlia: "Temo la solitudine, ma l' impongo a me
stessa a prova della mia indipendenza". Un amore per telefono
recita il titolo e, benché coincida perfettamente con l'originale francese, si pensa subito a un'esagerazione
editoriale, escogitata per invogliare i lettori. Ma, a parte
il fatto che l' anziana attrice si rivolge al suo amico
telefonico quasi sempre con parole tipo "love" o con dediche in
cui "mes amours" si sprecano, espressioni che potrebbero far
parte dello stile un po' esaltato di chi è abituato a stare
sulla scena, le pagine rivelano un affetto vero tra l' autore
e la sua interlocutrice, un affetto che cresce e si rinsalda
nel corso dei quindici estremi anni della Dietrich.
Tanto che alla fine non è da un pezzo più la leggenda che conta, ma la
vecchia donna fragile e grande, forte e meschina, malata e
stanca, scheletro senza più carne né seduzione, ombra dell'
ombra dell' ombra del mito.
CORRIERE
DELLA SERA - 18.12.1993