La mia amica Juliette Gréco

 

Biografia di Luciana Peverelli - SORRISI E CANZONI n.5 - 2 febbraio 1958 - 1^ parte

 

Fuga da Parigi - "Juliette, di nuovo alla sbarra! Dove vai, dove corri, la lezione non è finita". Nel grande salone all'ultimo piano del Teatro dell'Opera, dove i "topolini" si trovano tutte le mattine per le prove, una ragazzina piccola e magra, i grandi occhi neri che divorano la faccetta pallida, torna indietro timida, ma affronta la vecchia maestra di ballo. "Vado a levarmi il tutù, la mamma mi aspetta". "Ma non è finita l'ora di lezione. Non ti levi nulla. Mettiti alla sbarra come le altre". Juliette si morde le labbra, torna al suo posto. Ma appena la maestra si avvicina all'ultima della fila per alzare un braccio in un gesto più armonioso, la piccola Juliette, agile come un vero topolino, sguscia fuori, si precipita giù per le lunghe scale, non ha paura di perdersi nei meandri misteriosi del vecchio teatro che lei conosce bene e si precipita in strada. Un vecchio taxi è fermo vicino al teatro. Un viso ansioso si sporge dal finestrino: è quello di Charlotte, la sorella maggiore di Juliette. "Mamma, Juliette è in tutù". "Non importa. Purché sia qui. Presto. Falle infilare questo soprabito...". La carrozza attraversa le strade di Parigi che hanno uno strano, insolito aspetto. C'è qualcosa nell'aria, qualcosa di misterioso, di angoscioso, che la bambina non riesce ad afferrare ma che la sua sensibilità capta. La carrozza si ferma davanti alla gare de Lyon. E' affollata, gremita: c'è della gente che bivacca negli angoli; vi regna una caotica, allucinante confusione. Siamo nel 1940, i tedeschi sono alle porte. Juliette, con le scarpette di raso rosa inciampa nelle valigie, nei fagotti: il suo piccolo cuore è stretto dall'angoscia. "Mamma, torneremo a Parigi, un giorno?". "Chi lo sa, bambina mia". A stento riescono a trovare posto in un vagone. Juliette avrebbe voglia di piangere, ma vede che Charlotte e la mamma sono calme e forti, e non vuole essere da meno. Per lei, il dolore più cocente è quello di aver abbandonato la sua scuola, la danza che è tutta la sua vita. Ma c'è un'altra passione in lei che non ha ancora osato confessare alla mamma: il teatro. Quando è sola, e nessuno l'ascolta, va a scovare tra i libri della mamma, trova Shakespeare e lo legge e lo declama, senza capire gran che. La parte di Hermione in Andromaca è quella che eccita di più la fantasia di quella ragazzina magra, sparuta, niente affatto bella, con due grandi occhi di velluto, e il naso un po' troppo pronunciato. Per distrarsi, durante tutto il viaggio, cerca di ricordare taluni di quei versi che la cullano, come una musica.

 

Vita di provincia, domeniche terribili - Le due ragazzine e la madre si stabiliscono a Lione, in un piccolo appartamento borghese, di una loro parente. E la vita sembra riprendere normale e quasi tranquilla. Charlotte e Juliette prendono lezioni di danza. Si iscrivono anche a un corso di arte drammatica. Hanno degli amici: soprattutto la zia ha vecchie amiche che riceve la domenica, offrendo loro quello che può trovare nella dispensa, resa piuttosto magra dalle restrizioni della guerra. Quelle riunioni sono una tortura per Juliette: la zia pretende che lei si esibisca, che lei danzi... Magari la morte del cigno, o il passo a solo nel balletto di "Giselle", o che reciti qualche poesia. Juliette vede avvicinarsi ogni domenica con terrore. E' timida... e così impacciata che alla fine tutti ridono di lei. Ma per il resto, la sua esistenza è semplice, quella di una bambina qualunque. Tuttavia, sua madre, non è una madre qualunque. Ogni tanto scompare dalla città e nessuno sa dove vada. "Affari" dice lei. Ma ogni volta che si allontana bacia e stringe al cuore le due figliolette come non dovesse vederle mai più. E qualche volta sta assente mesi interi senza dare notizie di sé. La zia è preoccupata, ma le due giovinette sono così prese dai loro studi e dalla loro vita di provincia, piacevole e abbastanza serena, che non se angosciano troppo. Gli anni passano, volano, anche se le giornate sembrano cader lente ad una ad una con i rintocchi dei campanili nella città tra i due fiumi. Poi, un giorno la madre ritorna. Sembra molto eccitata. Dopo tutta una notte passata a confabulare con la zia, una partenza misteriosa è decisa per l'indomani. Charlotte, che ha origliato, corre a darne notizia a Juliette che dorme: "Partiamo in macchina domani... Chissà che non torniamo a Parigi". Sono i primi mesi del quarantacinque, Juliette ha diciotto anni ma ne dimostra quindici, tanto è fragile, magra. Le dispiace abbandonare di nuovo la scuola, le tranquille amiche della città di provincia, ma la nuova avventura la esalta e la entusiasma.

 

Arrestate dalle S.S. - La vecchissima macchina presa a nolo, e che funziona a carbonella, percorre le strade buie e deserte della Francia. Le ragazze si addormentano. La madre stessa guida, le mani strette al volante, gli occhi fissi davanti a sé. Durante il giorno, una sosta in un piccolo albergo. La camera è gelida, manca la luce, non c'è quasi nulla da mangiare. Le due sorelle si rannicchiano nello tesso letto, ma battono i denti tutta la notte, senza riuscire a scaldarsi. Juliette tuttavia ha fatto una scoperta: quella strada porta a Parigi. Anzi, non debbono essere nemmeno molto lontane. Parlano sottovoce, esaltate, mentre la madre dorme, sfinita, finalmente. Molto prima dell'alba sono di nuovo in piedi. Una ignobile bevanda calda che sostituisce il caffè è tutto quanto possono trangugiare. Le ragazze sono allegre, tutto ciò che è nuovo, anche se è misterioso e niente affatto piacevole, le diverte. Il viaggio riprende. I campi sono coperti di brina. Una nebbiolina leggera fluttua ancora nell'aria. Ad una curva, la macchina frena bruscamente. Un posto di blocco tedesco, inaspettato, forse istituito quella notte stessa, chiude inesorabilmente la strada. Gli uomini implacabili con i lunghi pastrani, gli elmi d'acciaio, si avvicinano alla vettura. Nella luce incerta e grigia dell'alba, scrutano le tre facce attonite, smarrite. La madre toglie dalla borsa i documenti, le carte d'identità. Un ufficiale li prende, scompare in una piccola casupola che sorge ai limiti della strada. L'attesa è lunga. L'ufficiale ritorna. La madre di Charlotte e di Juliette ha un sospiro di sollievo, ma subito è delusa. Il tedesco non ha più i documenti in mano. Scruta attentamente il suo volto, poi dà un ordine secco. Le tre donne sono costrette a scendere. Devono seguirlo nella casupola. "Juliette - mormora Charlotte - non mostrar d'aver paura davanti costoro". "Non ho paura". Nella casupola, per lo meno c'è una stufetta nella quale arde della legna. In silenzio, siedono su di una panca addossata al muro. I soldati che sono lì dentro fingono di ignorarle: vanno, vengono. Ogni tanto telefonano, provvisti di un apparecchio da campo. Si ode fuori lo strider di freni delle macchine che fermano, poi il crepitare dei motori delle loro camionette. La madre vorrebbe dire qualcosa alle sue figliole, ma non osa. Teme che che ogni sua parola possa venire captata. Ha un aspetto così giovane che sembra la loro sorella maggiore. E difatti, dai documenti che portano un nome falso, questo risulta. Dopo un'attesa snervante, quando Juliette comincia a provare il desiderio di mettersi ad urlare, un ufficiale entra e ordina alla madre di seguirlo. Le due ragazze balzano in piedi a loro volta, ma un soldato le trattiene. No, loro devono rimanere. La madre sorride "Coraggio, ci rivedremo...". Le fanciulle tremano, ma Charlotte esorta Juliette: "Non piangere... non devono vederci piangere". Dopo un attimo, sentono il rumore di una macchina che si allontana. Le due ragazze si stringono la mano forte, sui loro visetti pallidi ed impassibili è una maschera d'angoscia. Altre ore d'attesa. Sbigottite, affamate, non osano muoversi, non osano fiatare. Si sentono come anchilosate, pare a loro di vivere un incubo senza fine e ad un tratto la porta si spalanca. Adesso è la volta di Charlotte. Juliette si alza di scatto ma un soldato la respinge con violenza. Allora il coraggio di Juliette viene meno, non può sopportare di rimanere sola. Si aggrappa al collo della sorella: non piange ma grida che non possono separarle. E invece, sempre più rudemente, un soldato la strappa dalle braccia di Charlotte, e la sorella è portata via. Un attimo di esitazione, poi come folle Juliette si precipita fuori, non le importa se la fucileranno, non vuole essere separata da Charlotte. Sente grida e richiami gutturali risuonare alle sue spalle, ma con un agile balzo, è nella camionetta dove hanno fatto salire la sorella, le si stringe al braccio e guarda tutti come una piccola pantera feroce pronta a mordere. Una breve esitazione, poi l'ordine secco risuona. La camionetta parte con le due sorelle. E' un trionfo per Juliette, ma questa volta è Charlotte che piange: "Sei stata pazza, bambina mia. Forse ti avrebbero risparmiata...". La meta di quel viaggio è vicina, molto più vicina di Parigi: è la prigione di Fresne. Quando Charlotte la riconosce ha un brivido. Usciranno vive da lì? Quando sente le pesanti porte chiudersi alle sue spalle, Juliette ha un momento di panico, ma stringe i denti per non svenire. Le due ragazze vengono messe in una camerata dove già sono detenute politiche. Nello squallido ambiente trovano così un po' di calore umano, non si sentono troppo sperdute. E soprattutto hanno una grande gioia: riescono a sapere che anche la loro mamma si trova lì, in un altro reparto, e viene loro rivelato che è arrestata perché ha combattuto nelle file della resistenza, spesso rischiando la sua vita. La vita è dura e terribile. Soffrono il freddo, la fame, i loro corpi sono divorati dalle cimici e dai pidocchi, ma il loro coraggio non viene meno. Un giorno, Juliette viene chiamata a rapporto. Che ha fatto? Terrorizzata si presenta davanti al direttore delle carceri. "Quanti anni hai?". "Diciotto...". Il direttore si rivolge ai due ufficiali: "Vedete, non mentivo". Prende un foglio di carta, lo firma. Il soldato lo timbra e il direttore lo tende alla ragazzina. E' un ordine di scarcerazione. Sei libera. Immobile, Juliette stenta quasi a capire. "Passa dalla segreteria. Ti daranno la tua roba. Puoi andartene anche stasera stessa". "Mia sorella? Mia madre?", balbetta. "Non sono minorenni, non sono irresponsabili". "Potrò salutarle?". "Uscirai tra mezz'ora. Senza essere rientrata in camerata". Una guardiana viene a prenderla, la scorta lungo i corridoi fetidi fino alla segreteria, dove Juliette ritrova il vestito, il cappottino, le scarpe e una sacca dove c'è poca roba. Intontita si lascia accompagnare da costei che le promette di portare gli ultimi saluti alle sue care, fino all'uscita. La porta della prigione di Fresne si spalanca. Si richiude alle sue spalle.

 

Una bimba nell'immensa Parigi - Juliette è libera. Ma dove andrà? Che cosa farà? E' notte. Il grande viale tra due file di platani spogli s'allunga davanti a lei. La freccia di un cartello indicatore segna "Parigi chilometri 14". Juliette fruga nelle tasche: c'è un borsellino, dove tiene tutti i suoi risparmi, 300 franchi. Come una sonnambula si avvia per il viale deserto, dove la pioggia comincia a cadere. Parigi è là in fondo. Tutto sta ad arrivarci. Qualcosa troverà pur da fare, a Parigi! Cammina e cammina, come in una fiaba... All'alba, sfinita, dopo aver riposato e dormito sulla panca della piazzetta deserta di un villaggio, Juliette ritorna in quella grande città dove ha vissuto la sua infanzia. Ed è in un angolo di una Parigi a lei del tutto sconosciuta che il destino guida i suoi passi. In un angolo della città che è simile ad un villaggio, vegliato dall'antichissimo campanile di una chiesa: intorno a quei caffè dove sorgono piccoli e grandi caffè che hanno accolto in tutti i tempi, i diseredati e i poeti. Il "Villaggio" si chiama Saint Germain des Pres, e Juliette certo non immagina, in quell'alba grigia, che un giorno ne diventerà la musa ed il simbolo. Tuttavia, il primo caffè che beve, il primo panino che riesce a pagarsi con quei pochi soldi che ha in tasca, hanno per lei un sapore speciale, un sapore inebriante. Libertà, indipendenza. E' sola al mondo, può disporre di se stessa come vuole, può fare quello che le aggrada: vivere o morire, dormire tutto il giorno sulla panchina di un parco e cantare e ballare la notte sui marciapiedi di Parigi, oppure recitare Hermione, al vento, anche se nessuno può ascoltarla. E per la prima volta, da quando è nata, Juliette prova come una vertigine di gioia assurda, inconcepibile, ma inebriante.

Purtroppo, i primi tempi sono terribilmente duri. Non è certo danzando sulle punte o recitando Hermione che si potrà procurare del cibo e un letto. Inoltre, un amaro dolore le rende la vita più difficile e dura. Ha saputo che la madre e Charlotte sono state deportate in Germania, il giorno dopo in cui lei, per la pietà di qualcuno, è stata liberata. Quella solitudine che le era sembrata inebriante, ora le sembra soltanto paurosa. Si adatta a fare tutti i mestieri, servire in un bar, lavar piatti, vender giornali o bruciate, intanto che cerca il mezzo di procurarsi un sistema qualunque di vita. Un giorno va da un rivendugliolo di abiti vecchi e gli porta tutto ciò che possiede. In cambio di un po' di denaro, ha anche un paio di pantaloni e un maglione nero. Almeno con quell'insieme non ha più da preoccuparsi di lavare e stirare: resisteranno tutto l'inverno, tutta la primavera, giorno, mattina, sera. Niente parrucchiere, naturalmente, e poco tempo per pettinarsi. Le ciocche nere, lunghe, lisce, cadono sulle sue spalle, e a frange sulla fronte troppo alta. La prima sera che, vestita così, entra in un bistrot per comprarsi un panino e due salsicce, si accorge che qualcuno la guarda fissamente, ammirato e incuriosito. E' il primo omaggio alla sua femminilità. Dopo qualche mese, scoppia la folle euforia della liberazione. E' una notte indimenticabile. Parigi sembra impazzita. Col cuore stretto dall'angoscia di non saper nulla della madre e della sorella, Juliette cerca di dimenticare, di confondersi in quell'allegria sfrenata, corre di caffè in caffè insieme alla sua "ganga". Ormai la conoscono nel quartiere, ha già qualche amico. Talvolta un ragazzo le offre una cena, e sempre insieme ad una comitiva che fa chiasso, anche nelle ore piccole sfidando le ire degli agenti. Quella notte, in un bistrot, una ragazza vestita di un paio di pantaloni scozzesi e di un maglione nero, alta, slanciata, con l'aspetto di un giovane efebo, le rivolge la parola mentre la divora con lo sguardo. "Ti chiami Gréco? Accidenti, è il nome di un pittore celebre... Cosa fai? Patisci la fame?". Juliette si confida, non ha ancora trovato la sua strada e non sa come fare a campare. A sua volta la ragazza si presenta: "Mi chiamo Annabel, ma è soltanto un nome d'arte. Il mio cognome è Schobw de Lure! Figurati! Ma qui, nel quartiere, tutti mi chiamano soltanto Annabel. Sono indossatrice da Alwyn: i miei genitori possiedono una villa ad Auteuil, ma non vado d'accordo con loro: preferisco far la fame e la miseria, ma essere libera... Tu... dove abiti? Juliette racconta che deve lasciare proprio l'indomani, una specie di buco dove ha una branda perché non ha pagato la pigione nemmeno di quel povero alloggio. "Ti ospito io nella mia stanza - assicura Annabel - Io vivo in un alberghetto. E' sporco e miserando, ma ci abita gente simpaticissima e ci divertiamo un mondo tra noi. Basta con la guerra, le bombe, le restrizioni, le fughe, gli arresti, la morte e la paura... Adesso dobbiamo divertirci, divertirci a tutti i costi, capisci?!

 

Articolo inserito il 2.11.2010

 

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