VENEZIA SETTEMBRE 1963
P R I M A P A R T E
Oriana Fallaci - Questa intervista mi è molto
difficile, signora Gréco, e le dico perché. Numero uno,
la pensiamo su molte faccende nel medesimo modo e ci
intendiamo benissimo: tanta fortuna rischia di rendermi
poco obiettiva, ammesso che l'obiettività esista ed
abbia un senso. Numero due, so quasi tutto di lei: senza
dubbio, uno dei più grossi personaggi femminili che
l'Europa del dopoguerra abbia dato. Mi trovo cioè nella
situazione di quel giornalista che essendo specializzato
sui duchi di Windsor fu mandato a intervistare i duchi
di Windsor. Giunto alla porta si disse: "Ma che diavolo
posso chiedergli, ancora?". E, anziché bussare, scappò.
Io sono ormai in trappola, non posso scappare. Posso
cederle in compenso il mio posto. Coraggio, spieghi da
sé chi è Juliette Gréco.
Juliette Gréco - L'ex pubblicità di una
filosofia: "Juliette Gréco, sai, la musa
dell'esistenzialismo", "La Gréco: l'esistenzialista"...
Abbastanza terribile, no? Terribile per Sartre che non
lo meritava, pensi cosa dev'essere stato per un uomo
tragicamente serio come Sartre trovarsi pubblicizzato da
una ragazza vestita di nero. E terribile per me: ancora
oggi mi chiedo come abbia fatto a sopportare un simile
peso, una così assurda responsabilità. Immagini, non so,
di arrivare in Giappone, o in Australia, e sentirsi
dire: "Lei che è la musa dell'esistenzialismo, mi
spieghi: ma l'esistenzialismo, cos'è?". Cosa gli
risponde: "Comincio con Kierkegaard"? Tutt'al più io
rispondevo: "Spiacente, non sono Simone de Beauvoir". Ma
creda, ancora oggi ne provo vergogna: e a tal punto che,
se vedo Sartre, scappo via. Sartre mi ha allevato,
aiutato, accettato. Devo a lui e ai grandi come lui,
Picasso, Camus, Mauriac, se la mia adolescenza fu
intellettualmente così lussuosa. E l'aver contribuito a
far diventare l'esistenzialismo una moda, una specie di
twist...
O. F. - Non fu colpa sua: se Hegel fosse nato
quarant'anni fa, la dialettica hegeliana sarebbe
arrivata a noi, che so io?, attraverso il volto di
Brigitte Bardot. Viviamo un'epoca in cui perfino le idee
vengono pubblicizzate con le ragazze in costume da
bagno.
J. G. - E la mania della pubblicità si traduce in
mania dell'immagine: per vendere qualcosa ci vuole una
fotografia, per cristallizzare un pensiero ci vuole un
volto. D'accordo. Ma perché prendere il mio, proprio il
mio? Sono quindici anni che mi chiedo perché, senza
trovare risposta. Non cantavo nemmeno a quel tempo, non
facevo nulla di nulla, ero solo una ragazzina bizzarra e
scontrosa che passava le notti nei bar e portava i
capelli lunghi perché non poteva pagarsi il
parrucchiere, i pantaloni perché non aveva i soldi per
comprarsi le scarpe, e si vestiva di nero "perché il
nero è sempre elegante, poi il sudicio si vede meno sul
nero". Una ragazzina che un giorno, avendo perso il
cappotto, era scesa in una "cave" che era diventata un
club di nome Tabou. Ma al Tabou io non tenevo corsi di
filosofia: semplicemente guardavo da un buco della porta
per scegliere chi poteva entrare. Lasciavo entrare solo
chi mi piaceva ed ero molto crudele con chi non mi
piaceva: "Tu no, hai un'aria idiota. Tu no, hai un'aria
sozza". Voilà quel che facevo. E il marciapiede era
sempre pieno, anche centinaia di persone che venivano
per sapere se una mocciosa villana diceva sì o no.
O. F. - Una mocciosa però che aveva l'intuito e
il buongusto di cacciare i ricchi e far passare gente
come Camus, Mauriac, Prévert, Bérard, Sartre. Mi
racconti il suo incontro con Sartre.
J. G. - Arrivò con Simone de Beauvoir. Disse:
"Siamo venuti a vedere". Poi sedette a un tavolo e si
mise a parlare di jazz. Era gaio, allegro, rideva
sempre, e Simone era bellissima: un profilo da cammeo.
Naturalmente sapevo tutto di lui, avevo letto i suoi
libri. Lo ascoltai in silenzio e quando partì, era
l'alba, gli dissi: "Revenez, monsieur, s'il vous plait".
Lui tornò e cominciai a fargli delle domande. Passavo le
notti a fare domande: a lui e agli altri. Non creda
infatti che io sia intelligente: la mia intelligenza è
fatta di udito. Ascolto molto e ascolto bene. Ai miei
orecchi più che al mio cervello devo che la mia
adolescenza sia stata culturalmente un'adolescenza da
miliardaria, da enfant gaté. Io, quando avevo bisogno di
un consiglio o di una spiegazione, anziché rivolgermi a
un padre o a una madre, andavo da questi signori e, con
il mio libro in mano, chiedevo: "Che cosa vuol dire
questo, Jean-Paul? Cosa vuol dire questo, François?".
Loro mi rispondevano subito e io, pazza di gratitudine,
li amavo come un padre o una madre.
O. F. - Io credo che niente avvenga per caso:
tantomeno il successo. V'è sempre una ragione per cui
alcuni escono dall'anonimato e altri no. O una ragione
costruita, il successo si può costruire, o una ragione
vera. La sua era, secondo me, una ragione vera: la
ragazzina con le scarpe rotte e i gesti duri, la fame di
tenerezza e la sete di curiosità, simboleggiava qualcosa.
Le nostre scarpe rotte e i nostri gesti duri, la nostra
fame di tenerezza e la nostra sete di curiosità.
J. G. - Forse, ripensandoci... Ma a quel tempo
non lo sapevo e quando un fotografo di nome Willy Rizzo
mi fotografò insieme a un ragazzo del gruppo, Roger
Vadim, mi sembrò molto buffo: oltretutto eravamo così
sudici, io e Roger. E quando un altro fotografo venne
apposta da New York a fotografarmi per LIFE mi sembrò
addirittura oltraggioso. Dopo il reportage su LIFE non
potevo uscire per strada senza essere fotografata e
invano strillavo tra le bestemmie: "Perché?!". E' da
allora che esser fotografata mi dà angoscia: come la
celebrità. Non mi sono mai abituata alla celebrità e non
mi ci abituerò mai...
S E C O N D A P A R T E
O. F. -
Essere amica di
un uomo: ne è capace?
J. G. - Posso passare una notte intera a parlare
con un uomo senza accorgermi che vuole altro da me.
Naturalmente ho solide amicizie anche con le donne. Il mio
più grande amico è una donna, la giornalista Anne-Marie
Cazalis. La conobbi ai tempi del Tabou, quando lei stava
sempre con Vadim. Mi piacque perché era bella: occhi neri,
capelli d'oro, corpo magro. Le donne belle sono talmente
gradevoli: forse più gradevoli degli uomini belli.
Anne-Marie fu per me ciò che non era stata mia madre: una
madre. Ignorava la mia diffidenza di volpe e mi ripeteva:
"Come sei graziosa, come sei intelligente". Naturalmente
non le credevo, ero convinta già allora d'essere brutta e
non molto intelligente, ma sentirselo dire era ugualmente
un conforto. Voilà l'amicizia. L'amicizia è l'unica cosa
che mi ha tenuta sveglia per anni.
O. F. -
Solo l'amicizia? L'amore di un uomo mai? Eppure di amori
ne ha avuti.
J. G. - Uomini, non amori. L'amore mi è capitato
una volta: quando avevo diciannove anni. Lui ne aveva
quarantadue e fra tutti i maschi che ho conosciuto era
l'unico che assomigliasse a un uomo e fosse un uomo. Era
coraggioso: io ho sempre ammirato il coraggio, anche
fisico. Era generoso. Era bello. Era tutto. Mi disse:
"Come sei graziosa, come sei intelligente". Io scoppiai a
ridere pensando ad Anne-Marie e nacque l'amore. Vede
questo naso?
O. F. - Sì, è rifatto. Lo sanno tutti che il suo
naso è rifatto.
J. G. - Non è un naso rifatto, è una storia
d'amore. Ero sulla Costa Azzurra, con questo uomo-uomo, e
dormivo tra le rocce dell'Hotel du Cap a Cap d'Antibes.
Era una giornata di vento e lui era andato a fare il
bagno. Uscì dall'acqua, si piegò su di me, mise l'indice
sopra il naso, esclamò: "Che nasone hai!". Mon Dieu! Mi
parve che le rocce si chiudessero sopra di me come una
bara. Qualche mese dopo egli morì, in un incidente
automobilistico: faceva il corridore. Morì e io mi rifeci
il naso. Il mio naso era un naso un po' lungo ma dritto,
senza gobbe: un buon naso. Il chirurgo non voleva, gli
amici non volevano, ma perché ti tagli il naso, ma come,
sei pazza, e io lo tagliai trovando tutte le scuse fuorché
la vera... "Che nasone hai!". Da allora l'ho rifatto tre
volte. La seconda perché era venuto troppo all'insù. La
terza perché m'ero rotta il setto nasale cadendo. Quello
che ho ora assomiglia abbastanza al mio, è solo più corto.
E non è vero che costa dieci milioni di franchi. Il
chirurgo mi disapprovava talmente che non volle mai essere
pagato.
O. F. - Forse sono indiscreta, scortese, ma
glielo chiedo ugualmente. Come ha fatto un naso così a
star vicino per quattro anni a un uomo lontano come Darryl
Zanuck?
J. G. - Ha fatto che, ci creda o no, ero
innamorata di lui. E lo ero perché tutti lo detestavano,
perché era solo e nessuno lo amava. Vede, io non accetto
mai i giudizi degli altri: se ad esempio mi dicono di lei:
"Guarda, sta attenta, è cattiva, ti prenderà in giro...",
io non ci credo. Voglio giudicare da me. Così accadde con
Darryl. "Vedrai, è cattivo, è orribile, è finito".
Finito... Ma come può esser finito, pensavo, un uomo che
ha fatto seicento film? E se è finito, perché? E volli
conoscerlo, saperne di più. Per me, l'ho detto altre
volte, egli era nient'altro che un nome: una marca come la
Pepsi-Cola o la General Motors. Lo conobbi e restai con
lui. Tutti quegli anni... Vede, per una che è sempre stata
sola come me, ecco, è toccante tornare a casa e trovare
sei dozzine di rose rosse. Zanuck non è una persona, è un
sistema. Ma è anche un uomo che rappresenta qualcosa di
perduto, qualcosa che io non ho conosciuto: un'altra
epoca. E' anche un uomo che avrebbe potuto essere buono e
se non lo è mai stato è perché glielo hanno impedito.
Quando lui rideva, tutti ridevano. Quando lui era serio,
tutti erano seri. E quella specie di corte asiatica
cercava soltanto di ricavare vantaggio da lui. Io sono
l'unica che non ne abbia ricavato vantaggi: solo pessimi
film, in seguito ai quali i giornali inglesi scrivevano:
"Perché Zanuck fa un simile torto alla Gréco?". Mi avevano
offerto "Cleopatra" e lui disse no, gli avevo offerto
"Irma la douce" ("Irma la dolce") e lui disse no. Mi fece
fare solo pessimi film e la gente diceva: "Guarda la Gréco
che puttana. Sta con Zanuck per fare carriera". Carriera?
Per quattro anni mi sono messa contro gli amici, la
stampa, il mondo: perché tornasse alla Fox. E quando è
tornato e m'ha offerto la parte in "The Longest Day" ("Il
giorno più lungo"), io l'ho lasciato. E ora che l'ho
lasciato e lui è di nuovo alla Fox, gli stessi di prima mi
dicono: "Ma è carino, Zanuck. E' gentile. Perché sei stata
così cattiva con lui?".
O. F. - Non vi siete lasciati da amici, in
verità.
J. G. - Lui perse la testa e fece cose terribili.
Ma non gliene voglio per questo. Era un uomo di quasi
sessant'anni, e un uomo innamorato: quindi rispettabile,
qualsiasi cosa facesse. Io ho ancora amicizia per lui,
sebbene lui non ne abbia per me.
O. F. - Apprezza il denaro, signora Gréco?
J. G. - Sì, no, non so. Se lo apprezzassi ne
avrei probabilmente di più: è indiscutibile infatti che
non mi ha per niente cambiata. Un giorno Christian Bérard,
il pittore, disegnò per me un paio di pantaloni scozzesi.
In fondo ai pantaloni c'era una balza. "E questa cos'è?"
domandai. "E' visone" rispose. "E il visone cos'è?", "Lo
saprai presto" rispose. "E quando lo saprò?", "Cambierai"
rispose. Invece no. Anche economicamente vivo come prima:
con la sola differenza che prima facevo ai miei amici
regali da mille franchi e ora da centomila. Non cambia
nulla. Prima, per comprare un vestito, andavo alle
Galeries Lafayette: ora vado da Chanel. Non cambia nulla.
Prima non mi lavavo né mi tagliavo i capelli: ora spendo
diecimila franchi per uno shampoo. Non cambia nulla.
Queste cose oltretutto le faccio non perché mi divertano
ma perché ci sono obbligata: una cortesia verso il
pubblico...
Pagina inserita il 13 FEBBRAIO 2015
Ultimo aggiornamento
26.3.2015
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