Articolo di Stefano Mannucci - Rockstar 1987
(prima parte)
Parigi è un gioco di scatole cinesi. Non è una città, ma
piuttosto un catalogo di ansie metropolitane che si chiudono una
dentro l'altra, si negano, si rincorrono. Giri un angolo qualsiasi,
nulla sembra essere mutato - perché questo è il trucco, Parigi
appare sempre uguale a se stessa - ti ritrovi spiazzato e non
capisci perché. Al mio primo sbarco quassù, da studentello imberbe
alla disperata ricerca di battelli ebbri lungo la Senna, trovai
alloggio in una pensioncina modesta e decorosa giusto all'angolo con
Rue St. Denis. Alla reception, l'albergatore mi accolse in maniche
di camicia, bretelle e uno stuzzicadenti che spuntava volgarmente
tra le labbra. Aveva una faccia presa in prestito dal Bernard Blier
giovane di Quai Des Orfevres: mi squadrò beffardo e mi consegnò un
doppio mazzo di chiavi. "Questa è della sua stanza, monsieur.
L'altra è del portone. Alle undici chiudiamo. Chi è in strada è in
strada. E non le porti qui dentro, per favore. Noi siamo gente
rispettabile. E' una tradizione di famiglia, questo albergo". Sulle
prime non capii, non ero pratico di certe cose, o di questa città.
La sera, mi sentivo profondamente stanco, spossato quasi, ma non
riuscivo a prender sonno. La metropolitana correva nelle viscere
della terra, proprio sotto la mia camera. Ogni passaggio un
microsisma, un rumore cupo, da angoscia assoluta. Poi, nel silenzio
gravido, si udivano risate oscene, bisbigli complici, sospiri
assassini. Provenivano dalla strada, dal rifugio oscuro del
marciapiede. Rue St. Denis. Al mattino, non nutrivo più alcun dubbio
sulla speciale natura dei sorrisi che mi rivolgevano quelle donne
appoggiate sulle porte. Toutes les femmes font l'amour. Poi giri
l'angolo e la Ville Lumière ti risucchia col suo traffico criminale,
le sue nebbie d'autunno che paiono create d'artificio, le sciarpe
che volano attorno ai volti infreddoliti della gente comune. In ogni
tasca sospetti un coltello, in ogni cuore una sospetta nobiltà.
Scatole cinesi, per ogni stagione di foglie morte. Parigi è la città
dell'oblio per ogni mito. All'aeroporto Charles De Gaulle un
dinoccolato Mick Jagger mi arriva incontro, sul tapis roulant
parallelo ed opposto al mio, in perfetta, malinconica solitudine. La
foschia cela la punta della torre Eiffel, e il cielo s' ingoia i
turisti che lassù buttano i franchi per i modellini di plastica
della leggendaria ferraglia. Tutto è nascosto, trascurato,
abbandonato da questa città che cambia le carte ad ogni metro, e
stabilisce a suo piacere le regole della partita che ogni
viaggiatore gioca con la sua eterna suggestione. Lungo il
Boulevard De Montparnasse le ragazze corrono leggiadre come
gazzelle, lasciandosi dietro quelle briciole di fascino che stanchi
innamorati raccolgono, seguendole oltre ogni speranza. Uomini
nervosi gettano occhiate distratte nelle librerie di cinema e di
fumetti. Anouk Aimée e Tintin fanno capolino da una vetrina. Uno
scolaretto intruppa contro un flic, insozzandogli la divisa con la
sua succulenta crepe al cioccolato. E' una poesia fatta d'aria, come
sempre. Potrebbero venderla a cinquanta franchi la bottiglia, e
andrebbe a ruba. Poi imbocchi una strada laterale, una di quelle che
si infilano come una costola nella spina dorsale del grande,
maestoso viale, e sei in un altro film. In una seconda scatole.
Litighi con tutti quelli che incontri: il fattorino con il muso da
delinquente, l'autista del furgone che ha bloccato il passaggio, la
ragazzina perfida che ti osserva con disprezzo. L'aria è appestata
dallo scarico delle auto e da un disgustoso puzzo di frittura di
pesce che arriva dalle cucine di un ristorante a tre stelle.
C'era una volta una ragazzina scozzese che, per racimolare qualche
soldino durante le vacanze estive, trovò impiego alla catena di
montaggio di una fabbrica di surgelati. Tutte le sere ripiegava la
sua divisa dentro un sacchetto di cellophane, e ad ogni nuovo
mattino, indossandola, credeva di svenire per il trauma olfattivo
provocato da quell'aroma di sogliole e merluzzi penetrato nei
tessuti. La ragazzina adesso sapeva quel che non voleva fare nella
vita. Avrebbe impiegato le sue forze per non finire più in una
fabbrica. Eppure, è proprio in questa strada che mi aspetta, in una
stanza del dimesso Lenox Hotel. Forse per giocare con la curiosità
di questa quasi omonimia. Annie Lennox si è trasferita qui dal
principesco Georges V. Dice che la solennità di quell'albergo le
incuteva timore e soggezione. Non che sia timida, questa donna. Ma
da quegli occhi di glaciale bellezza traspare il desiderio di non
sentirsi mai scoperta, preda del potenziale attacco di un
interlocutore crudele. E' in lei la ferma volontà di imbrigliare i
suoi segreti più profondi, di celare ogni trasparenza dell'animo, di
negare alla pubblica osservazione quella sua immagine privata, al
tempo stesso decisa e vulnerabile. Annie è una scatola cinese. Per
questo vive a Parigi, dove nelle notti più trepide si odono
distintamente echi di parole vergate dai fantasmi eletti che qui
operarono. Come Jean Jacques Rousseau, il filosofo ginevrino che
teorizzava un impossibile ritorno allo stato di natura, alla
dimensione di "buon selvaggio" frenata, quanto meno, dalla necessità
di un contratto sociale. Allo stato delle cose, e con un
controverso, drammatico album intitolato Savage appena dietro le
spalle, Annie Lennox può forse trovare nell'utopia del grande
pensatore del Secolo dei Lumi una chiave di interpretazione
contemporanea, se non ultramoderna. Riscoprirsi un po' selvaggi se
non addirittura primitivi nell'approccio sentimentale col mondo, può
essere una via di salvezza psicologica? Annie sospira, poi si getta
in un fiume di pensieri, decisa.
"Sono tempi davvero interessanti questi che viviamo, non trovi?
Siamo testimoni di un'accelerazione massima nelle comunicazioni. I
media ci forniscono informazioni a velocità istantanea da ogni parte
del mondo, e proprio per questo assistiamo ad una crisi culturale. I
popoli che per secoli avevano mantenute intatte le proprie
tradizioni devono improvvisamente confrontarsi con la dittatura del
pensiero occidentale, con l'America, la Pepsi Cola, le
multinazionali. Antichi stili di vita sono stati spazzati via perché
questi popoli si adattassero agli schemi della civiltà occidentale,
e il risultato è un momento fluido dove non è assolutamente chiaro
quel che sta per accadere, quando finalmente ad ognuno sarà concesso
di intraprendere un viaggio individuale fuori dal tempo, dallo
spazio, dalle proprie radici. Sono proprio curiosa, mi sento in
gioco a livello personale. Mi sentivo completamente sradicata
dall'ambiente in cui sono cresciuta, perché vedevo quanto fossi
limitata dalle convenzioni, come donna e come essere umano
contemporaneo. Mi piace girare all'esterno, osservare le cose dal di
fuori, senza pagare tributi alle mie radici storiche, o genetiche.
Naturalmente esistono ancora numerosi gruppi di civiltà legati al
sistema familiare, a strutture di pensiero che tendono al
conservatorismo sociale. Era lecito aspettarsi una revanche
antiprogressista, perché dopo il movimento liberale degli anni
Sessanta la ruota era pronta a girare in senso contrario. Ogni nuova
generazione sembra agognare esattamente l'opposto di quel bagaglio
culturale consegnatogli da quella precedente e la mentalità della
gente comincia a farsi un po' più ristretta, invece di espandersi.
Ma la verità è che noi non siamo mai in grado di decifrare un
periodo storico fin quando non si è esaurito. Il principio vale
anche per il nostro presente. Credo che gli anni Sessanta abbiano
costituito il decennio più importante di ogni tempo, per noi donne.
Sul serio: a parte gli anni Venti e Trenta, quando il movimento
femminile riuscì a conquistare il diritto di voto in Inghilterra,
negli anni Sessanta il ruolo della donna nella società fu
completamente ridiscusso. Non ci fu un passaggio diretto dalla
maternità al carrierismo, ma l'acquisizione di una nuova
indipendenza, in un processo che è ancora in corso. Per esempio, se
vai a New York, ti rendi conto che tutti, uomini e donne, hanno
ormai deciso di vivere come piccole unità separate, e si trovano in
difficoltà a farsi spiegare le proprie emozioni da un analista.
Tutti decidono di sottoporsi a una terapia di gruppo per sviluppare
delle relazioni interpersonali, e coltivano ambizioni incredibili,
nutrono grandi aspettative per il futuro, si pongono traguardi
impegnativi. Questa è la cifra della vita contemporanea. Così quando
ipotizziamo di comportarci in modo più "selvaggio", e valutiamo se
questo possa essere salutare per la nostra psiche, dobbiamo renderci
conto che questi sono metodi estremamente sofisticati per tramutare
in innocenza la nostra nevrosi, la nostra latente schizofrenia. E
allora non so, non ho una risposta a portata di mano. Gli Eurythmics
vogliono mettere in luce le polarità, le contraddizioni del nostro
tempo".
Annie
si torce nervosamente le mani, stringendo le spalle, racchiudendosi
in se stessa, come se avvertisse un soffio gelido dentro la pelle.
La sua puntigliosa dissertazione, talvolta oscura, talaltra
estremamente lucida, non è altro che la proiezione di un visibile
turbamento interiore e il brillante esito creativo di Savage è
anche il frutto sublimato di una profonda crisi personale e
artistica...