Nico, voce di tenebra

 

 

DAI VELVET UNDERGROUND ALL'ALBUM "CAMERA OBSCURA"

 

21 APRILE 1986 - Concerto al Ciak di Milano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scura e inquietante, a tratti persino lugubre nell'elaborazione di passaggi che vanno dalla minimal music ai gregoriani accennati con voce roca. Christa Paffgen, per tutti gli affezionati del rock del tempo che fu semplicemente Nico, torna con un disco e una minitournée italiana (Brescia, Bologna, Milano, Roma e, questa sera, Napoli), a solleticare i pochi fan rimasti ad aspettarla dopo vent'anni di peregrinazioni tra le frontiere meno esplorate della musica giovane.

 

Più che quarantenne, pallida, capace di recitare fino in fondo la parte della ex rock-star sofferente e inquieta, Nico è ancora una scheggia vagante di quel big bang provocato dal rock della fine degli anni Sessanta. Maledetto certo, eroico in certe sfumature liriche, disperso oggi chissà dove tra conversioni alla commercialità di ritorno e morti per droga, tra sospiri che furono generazionali e dischi che fecero scuola.

 

La sua storia, vista oggi alla luce dei fasti plasticosi di un mercato discografico che è tutta immagine e poca sostanza, sembra quasi un flash-back, un film storico, una rimembranza vivente. Dalla città natale, Colonia, a New York, dove arriva giovanissima nel 1960. Poi le peregrinazioni per il Village, l'incontro con Bob Dylan, che fu suo grande amico e che la presentò ad Andy Warhol, suo vero pigmalione. C'è anche una parentesi italiana, un piccolo ruolo nel film LA DOLCE VITA di Fellini. Ma la svolta avviene quando Warhol la presenta ai Velvet Underground. Nico suona le tastiere, sovente inguainata in aderentissime tute nere, precorrendo il fascino dell'oscuro, vera presenza malefica in un gruppo che faceva dell'atmosfera la sua arma più appuntita. Non è un'esperienza lunga, ma pesa come il piombo nella storia del rock. Dai Velvet, apprezzati sicuramente più dopo il loro scioglimento che nel breve spazio della loro vita, discende il grosso filone del dark, quel rock scuro e cupo che ancora oggi gode di buona salute. Poi, altri film, altri dischi, tutti giocati sul versante di una marginalità un po' voluta un po' obbligata. E teatrini da riempire là dove gli ex colleghi (Reed e Cale) riempivano palasport, se non addirittura stadi.

 

Così è ancora oggi, con l'ultimo disco, Camera Obscura, prodotto da John Cale dopo tre anni di insistenza da parte della vera regina del dark, madre spirituale di tanti gruppi e gruppetti che hanno dato dignità di genere al filone. E insieme al disco il concerto: un'ora e passa di agghiaccianti sensazioni, tutte giocate sul filo dell'oscurità, tra percussioni incrociate (sul palco ci sono una batteria, bonghi, percussioni elettroniche) e tastiere, con Nico, seduta a un vecchio armonium da parrocchia, che gonfia il mantice con i pedali ricavando note basse e continue alle quali lega la sua voce cupa. Messa nera, concerto per non più di un centinaio di irriducibili disposti, ben comodi sulle poltrone del Ciak, a farsi sommergere da note essenziali o da una versione mozzafiato, roca e tirata, di una My Funny Valentine in odor di morte incombente.

 

Fedele alla linea di ciò che fu e che continua ad essere, con meno riflettori addosso e meno clamori attorno, Nico recita se stessa in musica e parole. Parla dei Velvet Underground come della grande rivoluzione, una rivoluzione sotterranea, dice, e spiega cinicamente quell'ondata di creatività. "Molto creativi? Certo - dice - c'era molto Lsd". E ancora, con fare nemmeno provocatorio, spara addosso ai vecchi miti, come Lou Reed, che definisce business man, troppo inquadrato, o come Dylan, un tempo suo grande amico che, dice Nico senza nemmeno un'ombra di ironia, "avrebbe dovuto morire giovane". E non è acido spruzzato negli occhi dalla rock-star arrogante, nemmeno cattiveria. Solo fedeltà a una linea, quella della marginalità e della cultura che resta, forse suo malgrado, underground, sotterranea, nascosta, mai ufficiale.

 

A chi le chiede, durante la conferenza stampa milanese, se sia d'accordo con i vari pentiti del rock, con Marianne Faithfull che descrive quel periodo eroico come "un grande errore", Nico risponde che no, non ci fu nessun errore. E che non si sente colpevole di nulla, nemmeno della cultura dell'eroina: "A volte - dice - è meglio morire giovani che invecchiare". Frasi agghiaccianti che contengono tutta la logica e la filosofia di una musica sincera, che solo ultimamente, ma non per la sua caposcuola, è diventata moda. E veniva da pensare, durante il concerto del Ciak, che dietro le note un po' gotiche di quell'organetto a pedale, dietro quella voce roca, ci fosse comunque una sincerità un po' triste, una coerenza spietata. E sicuramente una struggente nostalgia per quei tempi di sotterranei e club ristretti, di alone maledetto e musica d'avanguardia, esibita per esempio nell'esecuzione, sempre più "nera" e rarefatta, di The End, pezzo storico suonato a Milano con lugubre fluidità.

 

E nell'accavallarsi dei brani, alcuni giocati con il sottofondo delle percussioni, altri eseguiti soltanto all'armonium, Nico è apparsa ancora se stessa, lontana dai giochi del mercato, confinata nei teatrini-off, marginale per scelta, legata senza lirismo al sapore di un'epoca passata, che certo non fu generosa con i suoi figli. Lei, pallida e dai riflessi rallentati, dice che "i migliori di allora sono morti", anche se la sua musica spiega che la lezione resta, più scura e angosciante di quando fu impartita per la prima volta. E mentre suona il suo organetto assume i contorni un po' eroici e un po' tristi dell'irriducibile, lontana mille miglia dal mercato rutilante del disco e vicina a una pagina vecchia e suggestiva che ha fatto un bel pezzo della storia del rock.

 

 

Alessandro Robecchi - L'Unità - 23.4.1986

 

 

PAGINA INSERITA IL 5.5.2016