Scura e inquietante, a tratti persino lugubre
nell'elaborazione di passaggi che vanno dalla minimal music
ai
gregoriani accennati con voce roca. Christa Paffgen, per tutti
gli affezionati del rock del tempo che fu semplicemente Nico,
torna con un disco e una minitournée italiana (Brescia, Bologna,
Milano, Roma e, questa sera, Napoli), a solleticare i pochi fan
rimasti ad aspettarla dopo vent'anni di peregrinazioni tra le
frontiere meno esplorate della musica giovane.
Più che quarantenne, pallida, capace di recitare fino in fondo
la parte della ex rock-star sofferente e inquieta, Nico è ancora
una scheggia vagante di quel big bang provocato dal rock della
fine degli anni Sessanta. Maledetto certo, eroico in certe
sfumature liriche, disperso oggi chissà dove tra conversioni
alla commercialità di ritorno e morti per droga, tra sospiri che
furono generazionali e dischi che fecero scuola.
La sua storia, vista oggi alla luce dei fasti plasticosi di un
mercato discografico che è tutta immagine e poca sostanza,
sembra quasi un flash-back, un film storico, una rimembranza
vivente.
Dalla città natale, Colonia, a New York, dove arriva
giovanissima nel 1960. Poi le peregrinazioni per il Village,
l'incontro con Bob Dylan, che fu suo grande amico e che la
presentò ad Andy Warhol, suo vero pigmalione. C'è anche una
parentesi italiana, un piccolo ruolo nel film LA DOLCE VITA di
Fellini. Ma la svolta avviene quando Warhol la
presenta ai Velvet Underground. Nico suona le tastiere, sovente inguainata in aderentissime tute
nere, precorrendo il fascino dell'oscuro, vera presenza malefica
in un gruppo che faceva dell'atmosfera la sua arma più
appuntita. Non è un'esperienza lunga, ma pesa come il piombo
nella storia del rock. Dai Velvet, apprezzati sicuramente più
dopo il loro scioglimento che nel breve spazio della loro vita,
discende il grosso filone del dark, quel rock scuro e cupo che
ancora oggi gode di buona salute. Poi, altri film, altri dischi, tutti giocati sul versante di una
marginalità un po' voluta un po' obbligata. E teatrini da
riempire là dove gli ex colleghi (Reed e Cale) riempivano
palasport, se non addirittura stadi.
Così è ancora oggi, con l'ultimo disco, Camera Obscura, prodotto
da John Cale dopo tre anni di insistenza da parte della vera
regina del dark, madre spirituale di tanti gruppi e gruppetti
che hanno dato dignità di genere al filone. E insieme al disco
il concerto: un'ora e passa di agghiaccianti sensazioni, tutte
giocate sul filo dell'oscurità, tra percussioni incrociate (sul
palco ci sono una batteria, bonghi, percussioni elettroniche) e
tastiere, con Nico, seduta a un vecchio armonium da parrocchia,
che gonfia il mantice con i pedali ricavando note basse e
continue alle quali lega la sua voce cupa. Messa nera, concerto
per non più di un centinaio di irriducibili disposti, ben comodi
sulle poltrone del Ciak, a farsi sommergere da note essenziali o
da una versione mozzafiato, roca e tirata, di una My Funny
Valentine in odor di morte incombente.
Fedele alla linea di ciò che fu e che continua ad essere, con
meno riflettori addosso e meno clamori attorno, Nico recita se
stessa in musica e parole. Parla dei Velvet Underground come
della grande rivoluzione, una rivoluzione sotterranea, dice, e
spiega cinicamente quell'ondata di creatività. "Molto creativi?
Certo - dice - c'era molto Lsd". E ancora, con fare nemmeno
provocatorio, spara addosso ai vecchi miti, come Lou Reed, che
definisce business man, troppo inquadrato, o come Dylan, un
tempo suo grande amico che, dice Nico senza nemmeno un'ombra di
ironia, "avrebbe dovuto morire giovane". E non è acido spruzzato
negli occhi dalla rock-star arrogante, nemmeno cattiveria. Solo
fedeltà a una linea, quella della marginalità e della cultura
che resta, forse suo malgrado, underground, sotterranea,
nascosta, mai ufficiale.
A chi le chiede, durante la conferenza stampa milanese, se sia
d'accordo con i vari pentiti del rock, con Marianne Faithfull
che descrive quel periodo eroico come "un grande errore", Nico
risponde che no, non ci fu nessun errore. E che non si sente
colpevole di nulla, nemmeno della cultura dell'eroina: "A volte
- dice - è meglio morire giovani che invecchiare". Frasi
agghiaccianti che contengono tutta la logica e la filosofia di
una musica sincera, che solo ultimamente, ma non per la sua
caposcuola, è diventata moda. E veniva da pensare, durante il
concerto del Ciak, che dietro le note un po' gotiche di
quell'organetto a pedale, dietro quella voce roca, ci fosse
comunque una sincerità un po' triste, una coerenza spietata. E
sicuramente una struggente nostalgia per quei tempi di
sotterranei e club ristretti, di alone maledetto e musica
d'avanguardia, esibita per esempio nell'esecuzione, sempre più
"nera" e rarefatta, di The End, pezzo storico suonato a
Milano con lugubre fluidità.
E nell'accavallarsi dei brani, alcuni giocati con il sottofondo
delle percussioni, altri eseguiti soltanto all'armonium, Nico è
apparsa ancora se stessa, lontana dai giochi del mercato,
confinata nei teatrini-off, marginale per scelta, legata senza
lirismo al sapore di un'epoca passata, che certo non fu generosa
con i suoi figli. Lei, pallida e dai riflessi rallentati, dice
che "i migliori di allora sono morti", anche se la sua musica
spiega che la lezione resta, più scura e angosciante di quando
fu impartita per la prima volta. E mentre suona il suo organetto
assume i contorni un po' eroici e un po' tristi
dell'irriducibile, lontana mille miglia dal mercato rutilante
del disco e vicina a una pagina vecchia e suggestiva che ha
fatto un bel pezzo della storia del rock.
Alessandro
Robecchi - L'Unità - 23.4.1986
PAGINA
INSERITA IL 5.5.2016
