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Il soul di Nefertiti di Riccardo Bertoncelli


IL MUCCHIO SELVAGGIO 2008 - Era la "high priestess of soul", come voleva il titolo di un suo album famoso, la somma sacerdotessa della musica soul. Non le bastava. Nina Simone si sentiva la reincarnazione di Nefertiti, la regina egizia che negli anni Sessanta folgorò la fantasia di altri musicisti neri, da Cecil Taylor a Miles. Si sentiva la bellezza discesa sulla terra e visse di conseguenza, potente affascinante volubile come una regina. Masticò dischi, canzoni, concerti, amanti e collaboratori. Si indignò, fu seducente, eruttò la sua rabbia di donna nera discriminata e umiliata, usò la musica come un bastone, un favo di miele, uno specchietto da trucco. Diventò una star senza curarsene, volando alta sulle quisquilie di vendite e audience. Si sentiva una regina comunque: anche con le canzoni più sciocche, anche lontano dalle classifiche, anche in esilio, quando decise di abbandonare l'America per l'Africa e lo show business per una vita senza impegni.

 

La divisione Legacy della Sony ha appena pubblicato un doppio album per ricordare certi suoi anni gloriosi, quelli dal 1967 al '73. Si chiama "Tell It Like It Is" ed è un'antologia di pagine rare e inediti dal catalogo Rca che in venticinque quadri spiega molto della regina e dei suoi umori. Non la consiglio ai profani, che possono trarre più giovamento da una precedente raccolta, sempre Legacy, "Songs Of Freedom And Spirit"; ma è un viaggio comunque piacevole e illuminante in una bella regione del tempo, gli anni in cui il soul divenne la musica di tanti, gli anni della maturità per l'artista, e della disillusione, dell'amarezza.

 

Nina arrivò alla Rca nel 1967, a trentaquattro anni, giovane ma già esperta. Aveva accumulato una quantità impressionante di musica fin dagli anni più giovani, suonando pianoforte classico per un diploma che la pelle scura non le avrebbe mai concesso e scivolando poi senza sensi di colpa da Mozart a Broadway, dall'amato Rachmaninov al rhythm and blues. Noblesse e fame nera; la regina decise che era meglio buttarsi nella mischia e passò anni a fare quello che non aveva previsto e che in fondo le ripugnava, serate nei club di Atlantic City o dovunque le capitasse "davanti a un pubblico di coglioni alcolizzati". Soffrì, imparò, trovò il nome d'arte, onorando un amico spagnolo e uno dei suoi miti giovanili, Simone Signoret. Nel 1958 spese per la prima volta quell'alias su un album, "Little Girl Blue" della Betlehem. Le andò bene, venne ingaggiata dalla Colpix e con "The Amazing Nina Simone" iniziò il primo dei suoi periodi discografici, costeggiando il jazz, il gospel, il folk, Duke Ellington. Fin dall'inizio la fotografia è chiara: una grande personalità, una sapienza non comune al pianoforte e una voce straordinaria, androgina, una stecca di liquirizia che brucia lingua e orecchie, amarissima tisana terapeutica. E' così imponente la regina, anche da giovane, che la musica spesso non arriva alla sua altezza. Lei non ci bada. Le piace variare, mettersi alla prova, anche pasticciare, come accade in Nina With Strings, ultimo LP per la Colpix.

 

E' il 1964. Nina ha trent'anni, è appena diventata madre, comincia a guardare il mondo da una diversa prospettiva. Conosce Stokely Carmichael e si avvicina al movimento per i diritti civili del popolo nero. Quando Medgar Evers muore e quattro ragazze nere vengono assassinate in un attentato a Birmingham, l'emozione la spinge a scrivere una maledizione in musica, "Mississippi Goddam". C'è anche quella nel repertorio che Simone porta alla Philips, firmando un contratto per vari album. Ci sono i lamenti e le speranze per "il cambiamento che verrà", c' è la nuova coscienza femminile che ispirerà il gioiello di "Four Women", e ancora il jazz di Ellington, il blues di Billie e Bessie, Jacques Brel e la canzone francese, e Dylan che fa da ariete per il nuovo mondo folk-rock. Molte delle canzoni più celebri di Nina Simone appartengono a quegli anni e a quel catalogo: "Don't Let Me Be Misunderstood", per esempio, che gli Animals sono lesti a rubare con devozione, "I Put A Spell On You", che riposava beata dai tempi di Screamin' Jay Hawkins e sempre in zona beat diventa un classico, "Lilac Wine", che Jeff Buckley capta nel grembo di mamma (la canzone è giusto del 1966) e tanti anni dopo riprenderà così bene. Il terzo periodo è quello Rca e inizia nel 1967 con un album formidabile, "Sings The Blues". Un'opera "a freddo", come Nina ricorderà nella sua autobiografia, "I Put A Spell On You", un album poco preparato e quindi più rischioso ma forse per questo, per i prodigi che la spontaneità sa generare, bello e intenso come poche volte in carriera. Potessi scegliere non avrei dubbi, vorrei sempre Nina Simone così cruda, amara, bluesy. Ma non si può insegnare la vita a una regina  e non a caso l'album che segue in discografia è di tutt'altra stoffa, il vezzoso compiaciuto "Silk And Soul".

 

"Tell It Like It Is" non è un'antologia generale, lo abbiamo detto, ma sa riflettere la varietà e le contraddizioni del periodo Rca. Resta sullo sfondo quel piccolo capolavoro di "Nina Simone And Piano!", l'album da lei preferito, ma risuonano le note dei brani più famosi del periodo, "To Be Young Gifted And Black", di cui Nina è co-autrice, e "Ain't Got No - I Got Life", una cover dal musical "Hair". Mancano alcune traduzioni storiche, da George Harrison, da Dylan, ma c'è il Cohen di "Suzanne" che appassiona l'artista e le scuote la fantasia, non uno ma due arrangiamenti diversi, dal vivo e in studio - in quello più sorprendente e bello, Suzanne abita in una capanna in riva a un fiume africano e incanta i suoi innamorati al ritmo ipnotico di un tamburo. Sogni, visioni. Qualcosa di simile subisce "Turn! Turn! Turn!", l'inno di Pete Seeger già elettrificato dai Byrds. Nella gola di Nina e con i suoi modi quel brano diventa gospel, recuperando la sua origine biblica. Non tutto è così a fuoco. "Save Me", per esempio, è un confronto con Aretha dai contorni incerti, chissà se una sfida, un gioco o una presa di distanza. Ancora più dubbi lascia "To Love Somebody" dei Bee Gees nella versione registrata per il mercato italiano alla fine del 1967. E' forse la vera chicca del CD, perché il 45 giri originale ("Così ti amo") passò completamente inosservato e di quella estemporanea Simone in italiano si  era perso il ricordo. Peccato che la versione sia un disastro; il testo di Gino Paoli è ridicolo e Nina lo mastica senza alcun riguardo per il galateo e la dizione.

 

Martin Luther King venne assassinato il 4 aprile 1967. Tre giorni più tardi Nina Simone tenne un concerto alla Westbury Music Fair e, ancora sull'onda dell'emozione, lo onorò con una toccante versione di "Why? The King Of Love Is Dead". Fu il colpo fatale per le convinzioni di Nina, che da quel lutto e dalla crisi che seguì trasse l'amara convinzione che la sua lotta era stata inutile. Si staccò progressivamente dal movimento, evitò la svolta armata delle Pantere Nere ma nello stesso tempo rifiutò il credo della non violenza. Si rassegnò alla mediocrità dell'uomo e ai suoi ottusi conflitti, perse fiducia anche nella musica. Quando nel 1974 chiuse il rapporto con la Rca (l'album si intitolava a chiare lettere "Finished") abbandonò le scene e con la complicità dell'amica Miriam Makeba decise di trasferirsi in Africa. Rimase in Liberia quattro anni, poi trovò casa in Europa e solo negli anni Ottanta fece ritorno in America, con sempre meno fiducia, meno energia, con un fardello sempre più pesante di ombre e dubbi. Questa seconda storia è meno interessante della prima, la scomoda verità è che a quarant'anni Nina Simone aveva un grande avvenire dietro le spalle. L'Africa era l'unico sole della sua vita ed è bello e giusto che "Tell It Like It Is" finisca con un intenso inno come "A Charge To Keep" che Nina porta nel suo nuovo mondo ribattezzandolo "Thandewye", "amato". E' un nastro dalla Philarmonic Hall di New York, luglio 1973. La somma sacerdotessa si leva i paramenti, la regina annuncia il suo distacco; e lo fa con tale intensità, solennità, vigore da lasciarci tutti ammirati.