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Rassegna Stampa - La Repubblica: 1988/2002

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5.11.1988 - La Simone trionfa a Milano

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Milano - La solita suspense: arriva o non arriva? Farà il concerto per intero o no? Ma quando è arrivata sul palco, impettita e matronale come una regina africana, visibilmente commossa quando la platea è esplosa in una ovazione convinta, si è capito che Nina Simone è molto più seria della terribile fama che la precede. Quasi nessun organizzatore era più disposto ad organizzare un suo concerto, ritenendola del tutto inaffidabile, ma questo non ha fatto altro che far crescere l' alone leggendario che la circonda, come una delle rare artiste di culto rimaste in circolazione che siano all' altezza di questa definizione. Nina Simone forse non si è mai neanche posto il problema della commercialità dei suoi prodotti. Sembra assorta e concentrata nel suo mondo, lontana da banalità terrene, struggente e drammatica come solo alcune grandissime voci nere del passato sono riuscite ad essere. Strana, venata di follia, rigida e bloccata nei movimenti, inguainata in un buffo ed elegante abito a forma di carciofo, e pettinata all' africana, quando si mette al pianoforte e canta le sue canzoni scivola in quella magia impalpabile e sublime che è delle grandi interpreti. Nina Simone sembra in vena, pur afflitta da un microfono che taglia e riduce la sua voce, contenta di suonare per il pubblico italiano che la conosce così poco. Il suo canto è basso, cavernoso, con un timbro vagamente maschile che ricorda quello delle vecchie ma del blues classico. Ma soprattutto è una cantante che appartiene a quella razza eletta delle interpreti che possono permettersi di rifiutare la tecnica. Il suo canto è espressione diretta, senza mediazioni, sembra sgorgare direttamente dall' anima, senza abbellimenti, virtuosismi, note superflue ed estetizzanti. Ogni nota è essenziale, bruciante, e così ogni parola che canta è realmente interpretata, scavata in profondità, come se ci fosse sempre qualcosa da scoprire. Come è sua abitudine il repertorio del concerto spazia in lungo e in largo in ogni genere possibile, coadiuvata a livelli di minimo sindacale da un gruppetto di accompagnatori che ricorda le orchestrine di intrattenimento da locale di serie B. Ma fanno il loro dovere e presto ci si scorda completamente della loro presenza. Nina Simone interpreta alcuni dei suoi famosi remake come Here Comes The Sun scritta da George Harrison, che fu uno dei suoi primi successi e che tramite la sua voce si trasforma incredibilmente in una melodia africana. Ci sono alcune sue composizioni, anch' esse famose, in particolare quelle che anni addietro l' hanno qualificata come una cantante di protesta, tenacemente impegnata sul fronte dei diritti civili, come la drammatica Four Women o la divertente Mississippi Goddam cucita abilmente insieme alla superclassica Alabama Song di Weill/Brecht che è stata inserita di diritto anche nel canzoniere pop da quando se ne appropriarono i Doors. E naturalmente c' è My Baby Just Cares For Me, gioiello di molti anni fa rilanciato recentemente in un' America in vena di ricordi, il pezzo che ha creato finalmente una qualche attenzione di massa nei suoi confronti. Gli umori variano con estrema facilità dal gospel (suo retaggio dell' infanzia), al jazz sottile, al pop, alla ballad struggente. Talvolta, come quando canta Be My Husband, il clima diventa quello di un canto di lavoro, cadenzato solo da percussioni e dal pubblico che batte le mani. Non ci sono problemi di genere, perché qualsiasi materiale di partenza viene trasformato, personalizzato da questa voce straordinaria che non si preoccupa mai di apparire bella, quanto di esprimere. La gente si infervora sempre di più, anche perché la stessa Simone sembra scaldarsi man mano, superare pezzo dopo pezzo una istintiva diffidenza nei confronti del pubblico e concedersi sempre di più. Sorride, invita la gente a battere le mani, mostra una cordialità che nessuno si sarebbe aspettato, forse perché spiazzata dallo straordinario affetto che il pubblico le manifesta. Il concerto finisce presto, e i cultori sono ancora poco sazi, anche perché chi la conosce, sa quante straordinarie canzoni potrebbe ancora cantare. Ma accade l' incredibile. Un ragazzo si avvicina al palco e le chiede una canzone, Nina Simone lo guarda con infinita dolcezza e si rimette al piano per cantarla. E' Nobody Knows You When You' re Out And Down, e la canta guardando il ragazzo come per dirgli: "Sei contento?". La gente non smette di applaudirla. E c' è ancora un bis, una nuova canzone che Nina Simone canta con grande profondità, immersa in una concentrazione contagiosa, da pelle d' oca. Alla fine guarda il pubblico e promette di tornare molto presto. Solo così la gente si placa e se ne torna a casa. - GINO CASTALDO

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24.8.1990 - Insieme in tournée tre grandi cantanti

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Reggio Emilia - Three women for freedom, tre donne per la libertà, è il titolo della tournée italiana in cui Nina Simone, Miriam Makeba e Odetta si esibiranno per la prima volta insieme. La tournée, organizzata dalla City Medial Two di Reggio Emilia, porterà le tre grandi cantanti in concerto il 4 settembre a Rocca dei Normanni di Paternò (Catania), il 6 a Salerno, l' 8 a Cagliari e il 10 a Bologna. Simone, Makeba e Odetta rappresentano la grande tradizione musicale afroamericana che hanno sviluppato in modi diversi. La prima è l' estro, la gran voce, il pianismo, e in questi ultimi anni è tornata a calcare i palcoscenici del mondo dopo un lungo periodo di silenzio; Miriam Makeba, nata in una tribù Xosa del Sudafrica, ha vissuto a Soweto prima di un lungo esilio dal suo paese (nel quale è tornata ultimamente), dedicandosi attivamente alla lotta contro l' apartheid insieme a musicisti come Paul Simon e partecipando ai grandi appuntamenti per Nelson Mandela. Anche Odetta, sessanta anni, considerata un mito della musica folk afroamericana, ha fatto della battaglia per i diritti civili una costante della propria attività artistica.

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27.12.1991 - La voce diretta dell'anima

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Roma - Infagottata nei suoi improbabili vestiti, con quel crocchio di capelli dritto sulla testa, simile ad una statua africana, Nina Simone sembra arrivare da un altro pianeta, proveniente da un' era della musica per così dire pre-tecnologica, ostinatamente tribale, tutta acustica e stilisticamente essenziale. Il suo segreto è tutto in questa prodigiosa alienità, scevra da qualsiasi compromesso o concessione che sia. Come molti grandi interpreti, ma forse più di chiunque altro, sembra attingere ad un mondo tutto suo, misterioso e impenetrabile. Lascia scorrere liberamente la sua voce, al di là di ogni impostazione convenzionale del canto, ottenendo un' intensità drammatica che non ha confronti nella musica di oggi. Il suo modo di cantare è talmente diretto, non mediato da alcuna sovrastruttura stilistica da provocare nell' ascoltatore un emozionante disagio, quell' imbarazzo che si prova quando ci vengono presentate verità troppo brutali, e per di più disadorne, non addolcite da forme retoriche. Una geniale semplicità dunque. Per usare un' immagine cara alla cultura afroamericana, sembra che per Nina Simone il tragitto dall' anima all' espressione vocale sia il più diretto immaginabile, non elaborato, non arricchito strada facendo da quegli "effetti" che più o meno tutti i cantanti adoperano per imbellire la propria emissione vocale. Per trovare qualcosa di simile dovremmo tornare indietro a Billie Holiday, anche se le due voci sono completamente diverse, simili solo in questa capacità di superare con geniale semplicità gli aspetti più convenzionali e artificiosi del canto. A tutto questo, nel concerto tenuto dalla Simone al Palladium di Roma, si è aggiunta una prepotente bizzarria, una stralunata vivacità che in altri recenti concerti era mancata. L' avevamo vista altre volte, sempre più appesantita da una sorta di allucinata catatonia che pure produceva effetti di sconvolgente drammaticità. Mentre a Roma, ha fin dall' inizio dialogato col pubblico, prima insultandolo perchè rumoreggiava o si distraeva in fondo al locale in zona bar, poi blandendolo, richiedendo perentoriamente attenzione, poi infine facendolo cantare e arrivando a sorridere entusiasticamente di fronte al crescendo di entusiasmo collettivo. In questa vena più generosa e estroversa del solito, ha saputo passare dai toni più sofferti, elegiaci, allo swing veloce e divertente di cui pure è maestra. Per cantare la sua Seeline Woman si è addirittura messa a ballare, su una scansione africana sottolineata dal battito di mani della platea. Ha spaziato nel suo immenso repertorio sia riproponendo alcuni classici di sua composizione come Mississippi Goddam, Four Women, sia come di consueto riproponendo canzoni tratte dai più disparati repertori, e riproposte nella sua inconfondibile, spesso radicalmente diversa, versione. Splendida tra le altre la classica Don' t Let Me Be Misunderstood, all' interno della quale ha infilato una lunga citazione, o almeno così è parso ai presenti, di Dicitencello Vuje. Ha poi proposto Baltimore di Randy Newman, Here Comes The Sun dei Beatles, che fu molti anni fa un suo personalissimo successo in America, e a sorpresa una entusiasmante versione di My Way, che ovviamente faceva letteralmente scomparire quella di Frank Sinatra. E poi I Put A Spell On You, Love Me Or Leave Me e altre ancora. L' unica vera concessione al pubblico Nina Simone la ammette nel chiudere sistematicamente tutti i suoi concerti con l' immancabile, richiestissima My Baby Just Cares For Me, vera e propria sigla della sua carriera, e puntualmente occasione di un festoso, eccitante finale con tutto il pubblico in delirio. Gino Castaldo

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11.6.2001 - Nina Simone, un mito che trionfa sul tempo

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Parigi - Midtown Bar and Grill, Atlantic City, 1954. Eunice Waymon, giovane ragazza nera della Carolina del nord, suona nel supper club per pagarsi le lezioni di musica. Per evitare che i genitori, ministri della chiesa battista, lo sappiano, si fa chiamare Nina Simone. Ha la testa piena si sogni. La Juilliard School di New York, con l' idea di diventare la prima concertista afroamericana. Una voce ubriaca tuona nel locale semivuoto. «Canta! Perché non canti?» Un brivido di terrore le attraversa la schiena. Non ha mai cantato, non può. E il padrone del club minaccioso: «Vogliono che canti. Canta. O sparisci» le sibila nell' orecchio. Incomincia a cantare con la voce spezzata, gracchiante, virile. Lo fece perché aveva giurato a se stessa di suonare alla Carnegie Hall. Ci arrivò, ma come cantante. E ci tornerà tra pochi giorni, il 28 giugno. Parigi, 8 giugno 2001, Palais des Congrès. «E' bello rivedervi dopo dieci anni» mormora ai settemila che riempiono la sala. Tutto esaurito da febbraio. Nina Simone ha 68 anni, vive a Bouc Bel-Air, non lontano da Aix-en-Provence. Polemicamente, ha rinunciato alla cittadinanza americana. Le fanno compagnia la solitudine e un ragazzo magro e pallido col naso aguzzo che ne ha fatto la sua ragione di vita, Roger Nupie, il presidente del fan club. Non è difficile immaginare un rapporto di complicità e di indecifrabile opportunismo reciproco, come quello di Marguerite Duras e del suo giovane amico/amante gay. A malapena si regge sulle gambe. L' accompagnano in due allo sgabello del pianoforte. La prima standing ovation dura quasi dieci minuti, e la sacerdotessa del soul non ha ancora pronunciato una parola. Quando il pubblico si riaccomoda sulle poltrone, pigia un dito su un tasto del pianoforte e intona solenne Black Is The Color Of My True Love' s Hair, una folk song irlandese che negli anni Sessanta vestì con costumi africani. Canta a stento, ma il timbro non ha perso la forza. Ancora come lo raccontava Sam Shepard in Motel Chronicles. Canta Everytime I feel The Spirit, un gospel che le toglie il fiato. Poi Here Comes The Sun di George Harrison. Si perde in una versione in inglese, intensa, disperata, di Dicitencello vuje che la lascia disorientata. «Qual è la prossima?» chiede ai musicisti. E prima di ottenere risposta è già nello spirito di Dylan, con la sua versione di Just Like A Woman. «Ora voglio ballare» esclama perentoria. Ma riesce a malapena ad alzarsi per scandire con i piedi il tempo dell' ipnotica Seeline Woman. Alla fine, sfiancata, scompare dietro le quinte. Il gruppo resta in panne. Il percussionista si prodiga in un assolo, il chitarrista accenna una bossa nova jazz. I ragazzi (ci sono moltissimi giovani in platea) la invocano: «Nina ne nous quitte pas», non ci lasciare, come il titolo francese della sua autobiografia, come la canzone di Jacques Brel che canta non appena la riaccompagnano al pianoforte. Il momento più intenso della serata, insieme alla ripresa di Don't Explain di Billie Holiday. Le resta la forza per un altro spiritual: Trouble Of The World, la cantava Mahalia Jackson nel film Lo specchio della vita, nella scena in cui Lana Turner piangeva al funerale della sua cameriera di colore. Il pubblico non si rassegna a lasciarla andare. La richiamano in scena con amore, si assiepano sotto il palco. Una ragazzina singhiozza invocando il suo nome. Assomiglia alla Bridget Fonda infatuata della Simone nel film Nome in codice: Nina. Rientra per liquidare in due minuti My Baby Just Cares For Me, la canzone che la pubblicità di Chanel N. 5 portò prima in classifica, trent' anni dopo. Tenta un inchino, dice «Vi amo», poi si ritira. Cinquanta minuti: pochi per un biglietto pagato 150.000 lire. Tanti per i fan che non ci speravano più. Sanno che è in difficoltà. Sanno che di più non può dare. Vorrebbero, ma non osano chiedere un secondo bis. - Giuseppe Videtti

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28.4.2002 - La mia regina egiziana

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"Portavo sempre il ghiaccio a Nina Simone. Le portavo un sacco di plastica grigia pieno di ghiaccio per raffreddare lo scotch. Si strappava la parrucca bionda e la gettava sul pavimento. Sotto, i capelli erano corti come il vello tosato di un agnello nero. Si scollava le ciglia finte e le appiccicava allo specchio. Le palpebre erano spesse e dipinte d' azzurro. Mi faceva venire in mente una di quelle regine egiziane che vedevo sul National Geographic. La pelle era lucida di sudore. Si arrotolava un asciugamano azzurro intorno al collo e si sporgeva in avanti appoggiando entrambi i gomiti sulle ginocchia. Il sudore le rotolava giù dal viso e schizzava sul pavimento di cemento rosso tra i suoi piedi. Finiva sempre il suo spettacolo con la canzone «Jenny delle spelonche» di Bertolt Brecht. Cantava sempre quella canzone con una sorta di profonda e penetrante rivalsa, come se avesse scritto le parole lei stessa. La sua esecuzione puntava dritta alla gola del pubblico bianco. Poi al cuore. Infine alla testa. Era un colpo mortale in quei giorni. Ma la canzone che mi lasciava di stucco era «You' d be so nice to come home to». Magari ero in giro a raccogliere bicchieri in sala e lei attaccava una specie di frana roboante al piano con la voce che sgusciava attraverso gli accordi. I miei occhi s' incollavano sul palco e ci rimanevano mentre le mani continuavano a lavorare. Una volta rovesciai una candela mentre lei cantava quella canzone. La cera bollente sgocciolò sull' abito di un uomo d' affari. Mi chiamarono nell' ufficio del direttore. L' uomo d' affari era lì in piedi con questo lungo schizzo di cera indurita sui pantaloni. Pareva che si fosse venuto addosso. Fui licenziato quella sera. Fuori in strada sentivo la sua voce che arrivava dritta attraverso i muri di cemento: «Sarebbe il paradiso se tu tornassi a casa»". Sam Shepard - Testo tratto da «Motel Chronicles» Ed. Feltrinelli

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28.4.2002 - INTERVISTA - Odio l'America, odio la gente tranne quando sono sul palco

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Roma - Conosce Maria Callas? «Io sono come Maria Callas». È l' unica bianca alla quale le piace somigliare. Maria Callas e Frank Sinatra. «Lui è grandissimo, è mai venuto a cantare in Italia? Mi piace molto l' opera. Una volta ho cantato anche "Black Swan", dal Medium di Giancarlo Menotti». Poi Nina Simone entra nel pantheon dei neri e non ne esce più. «Marian Anderson, il grande contralto, una delle mie preferite, insieme a Stevie Wonder e Ray Charles. E Patti LaBelle: abbiamo duettato alla Carnegie Hall il 13 aprile. Al "Rainforest Concert" organizzato da Sting». Ha cantato canzoni di Sting? «No. Non ne ha bisogno. È già così ricco. Case, castelli... Vorrei avere io tutti quei soldi!». Cosa ha cantato? «"Here comes the sun" di George Harrison, "My baby just cares for me" e "Ne me quitte pas di Jacques Brel. Poi sul finale quando Patti e io abbiamo intonato "Oh happy day", tutti gli altri si sono uniti in coro, Sting, Elton John, James Taylor, Smokey Robinson. Una notte di stelle, mi hanno trattato come una regina». Si è riappacificata con l' America, dopo la polemica fuga in Africa negli anni Settanta e la scelta definitiva di una nuova nazionalità, quella francese. «Sì, una volta tanto New York mi è piaciuta e mi sono divertita. Ho sempre odiato quella città. Ci sono tornata dopo dieci anni. Ma ora che sono qui a casa mia non ho alcuna voglia di tornarci». La casa di Nina Simone, 69 anni compiuti il 21 febbraio, è a Bouc Bel-Air, in Provenza, lontana dall' America che ha ripudiato da un quarto di secolo, con gli odori dell' amata Africa che le arrivano dal Mediterraneo. «Questo è un bel paese, mi allontano raramente ormai. Solo quando il mio manager riesce a organizzarmi una piccola tournée qui intorno». Il 5 maggio si esibirà all' Auditorium di Roma. Che ricordi ha del nostro paese? «Cantai al Sistina, in sala c' era anche la Magnani. Quell' anno (il 1969) mi fecero anche incidere una canzone in italiano, "Così ti amo". Imparai le parole in poche ore e a tarda sera avevamo completato la registrazione». Era una versione di "To love somebody" dei Bee Gees per la quale Gino Paoli scrisse un nuovo testo. «È un' artista difficile, molto difficile» raccontava Ronnie Scott che la ospitò più volte nel suo jazz club londinese. «Ricordo una volta che dopo aver cantato due canzoni s' interruppe bruscamente e incominciò a scrutare il pubblico in sala senza dire una parola. Poi si alzò e scomparve dietro le quinte. Il concerto era finito». Nina Simone non è mai stata un' artista facile. Ora meno che mai. Quest' intervista è frutto di un anno di telefonate, email, inseguimenti, richieste ripetutamente respinte. «Dr. Simone non vuole parlare del suo passato, non faccia lo stesso errore degli altri giornalisti» ammonisce Clifton Henderson, il suo factotum. L' anno scorso c' invitò al Palais de Congrès di Parigi: un concerto trionfale, ma alla fine era esausta, troppo stanca per un' intervista. «Non creda che Dr. Simone sia un' artista fragile come sembra» dice il suo manager Juan R. Yriart «è solo una donna che pretende attenzione e sa come ottenerla». E pretende anche di essere chiamata "doctor": sempre e da chiunque. I fan italiani hanno perso le sue tracce. Le sue apparizioni sono sempre più rare. Per molti lei è diventata un culto. «Era quello che volevo quando mi sono stabilita in Francia. Volevo condurre una vita ritirata, lontana dai riflettori. Affacciarmi alla finestra e vedere il mare. E, in una bella giornata come questa, spalancare le persiane e far entrare il sole. Non ne potevo più dell' America, non ne potevo più della gente. L' unico momento in cui tollero la presenza del pubblico è quando sono sul palcoscenico. In quel momento vorrei conoscerli uno ad uno. Sapere chi sono e dove sono seduti. Diversamente, come si può cantare una canzone a qualcuno?». Come mantiene il contatto con i suoi ammiratori? «Mi scrivono lettere. Ne ricevo migliaia ogni giorno, dai milioni di fan che ho in tutto il mondo». Ora sta lavorando a un nuovo disco, quando uscirà? «Ho già inciso alcune canzoni, ma ci vorrà ancora tempo. Ci saranno dodici brani, o forse dieci. Dovrebbe essere pronto per fine anno». Canterà anche qualcosa in francese? «Sì, una nuova versione di Ne me quitte pas». Come trascorre la sua giornata? «Da reclusa, come piace a me. Faccio passeggiate, trascorro ore sotto il porticato, poto le piante, raccolgo i fiori. E siccome sono anche una donna fortunata, a volte mi concedo un concerto nei paraggi». Ascolta musica in casa? «Mai. Tranne le canzoni che eseguirò in concerto. Le ascolto e le risuono infinite volte». Come si è sentita quando New York è stata attaccata dai terroristi? «È stato un choc, come per tutti. Ma non è stata una sorpresa: quel che è accaduto non era del tutto imprevedibile». Avrebbe mai creduto, dopo le canzoni di protesta, le marce e i sit-in cui anche lei ha partecipato negli anni Sessanta di ritrovarsi di nuovo in guerra? «Non me l' aspettavo, ma ora sono pronta». La maggior parte degli artisti americani si è stretta intorno a Bush quando il presidente ha annunciato l' attacco all' Afghanistan. «Non io. Io avrei votato per Gore». Come giudica la scena musicale nera di oggi? Il suo nome è finito anche in una rima dei Fugees: "You Al Capone / I' m Nina Simone". «C' è molto rap in giro, ma niente di musicalmente valido. Il messaggio, in fondo, è lo stesso delle mie canzoni di trent' anni fa. Ma a loro manca un leader. Non hanno Martin Luther King, non hanno Malcolm X, e alla fine sbattono la testa contro il muro». Oggi si sente più francese o americana? «Io mi sento Nina Simone, mio caro». Giuseppe Videtti

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8.5.2002 - Il mito di Nina Simone brilla solo nei ricordi, dal vivo è l'ombra di sé

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Roma - Chi ama gli artisti che hanno consumato la vita sulla fiamma dell' intensità insegue il mito del genio. E sa anche che Nina Simone è una di quegli artisti che, come pochissimi altri, è capace di far scattare la scintilla che accende la luce sulla poesia della musica, anche solo con un brano, lasciato alla deriva in un fiume di musica priva di luce. Dopo averla ascoltata l' altra sera a Roma, all' Auditorium Parco della Musica, viene il sospetto che anche per lei il mito della scintilla sia niente più che un ricordo. Guardando lo spettacolo malinconico che la povera Nina Simone stava offrendo di sé e della sua musica al generosissimo pubblico dell' Auditorium, veniva da domandare a quel giovanotto vestito alla maniera degli anni d' oro del Cotton Club che le fa da assistente, che cosa si sia sostituito al cuore per dargli il coraggio di non impedirle di punirsi così in pubblico. Accompagnata dalla "solita" band di musicisti olandesi assemblata per l' occasione, vestita con un abito impietosamente scollato, spinta da passetti traballanti, Nina Simone è salita sul palco brandendo un bastone con un piumino tipo quelli dei riti voodoo di New Orleans che lei ha usato per incitare il pubblico. Black Is The Color Of My True Love' s Hair, Four Women, Mississippi Goddam sono alcuni dei titoli di questo concerto in cui pareva di sentire Nina Simone che ricordava distrattamente a un amico i suoi brani più famosi. Neanche la proposta a sorpresa della beatlesiana Here Comes The Sun è servita a dare un po' di vita alla serata. Gli applausi entusiastici del pubblico le sono serviti per avere il tempo di chiedere al chitarrista la tonalità di canzoni suonate migliaia di volte, l' incongrua atmosfera di festa ha trasformato in una gag il fatto che non conosceva neanche i nomi dei musicisti. Il tutto è diventato troppo triste quando sono arrivate le note stupende di I Loves You Porgy. Mentre il basso e la batteria producevano un fastidioso "tump tump", Nina Simone ripeteva stancamente quella melodia di Gershwin che in passato lei ha trasformato in una delle canzoni più intense e struggenti della musica moderna. Ostentando il più completo disinteresse per le richieste del pubblico, ha sbrigato così la "pratica" del bis: «comprate i miei dischi e tornate a sentire i miei concerti». E mentre caracollava verso le quinte, il vecchio cuore di fan pregava di non vedere mai più sul palco Nina Simone infierire così sul suo mito. Paolo Biamonte