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I MITI DELLA MUSICA

Articolo di GIUSEPPE VIDETTI - Inserto LA REPUBBLICA 1998

Horses, nel 1975, si abbatté sul rock'n'roll come un uragano. Un album in bianco e nero prodotto da John Cale che riprendeva in mano le redini della musica che si erano allentate, persino slabbrate per le troppe tentazioni che aveva incontrato lungo la strada, dopo la scomparsa di Hendrix, Joplin, Morrison. A un soffio dal punk, con la brezza della new wave che incominciava appena a soffiare, Patti Smith richiama il rock ai valori essenziali: sobrietà, poesia, immediatezza, carica eversiva. Tutto espresso senza mediazioni, come un torrente che travolge. La maggior parte dei brani di Horses supera di gran lunga la durata del formato-canzone che l'industria del disco aveva fissato tra i tre e i quattro minuti. Land è un fiume di suoni e di parole che scaturiscono dall'urgenza di esprimersi senza freni, senza mediazioni e senza peli sulla lingua. Una poesia che non ammette maiuscole e punteggiature per mescolarsi a una selvaggia forma di rock che sconvolge gli equilibri che avevano annacquato la tradizionale spontaneità di artisti che in vent'anni avevano fatto grande quella musica.

 

"Volevamo entrare nell'arena del rock'n'roll. Volevamo riportare il rock'n'roll nelle mani della gente. Volevamo che rock'n'roll e arte fossero una cosa sola. Avevamo un sacco di idee, artistiche, politiche. E volevamo realizzarle tutte", dice oggi l'artista ripensando a quegli anni, quando approdò a New York con molte poesie scribacchiate su un blocnotes e pochissime possibilità di farcela. Determinata, fortemente motivata, aggressiva e ricettiva come una fiera, totalmente devota ai figli della cultura sotterranea della metropoli, da Warhol a Lou Reed, da Nico ai Fugs - parlava di sé come "artista" ancor prima che qualcuno l'avesse riconosciuta come tale. Compagno di ambizioni era un ragazzo pallido e mingherlino arrivato anche lui dalla provincia. Si chiamava Robert Mapplethorpe. Con lui viveva in una stanza di Brooklyn che era stata trasformata in un bicamere da un lenzuolo che fungeva da muro divisorio. Lo racconta Patricia Morrisroe nella dettagliata biografia del fotografo pubblicata due anni fa, in cui, inevitabilmente, molto si parla anche della poetessa rock di cui Mapplethorpe realizzò i ritratti più belli, finiti poi nelle copertine di Horses, Radio Ethiopia e Easter.

 

"Conobbi Robert quando aveva vent'anni ed era uno studente d'arte. Passavamo tutto il tempo a fare progetti e a creare. Non avevamo una lira. A volte eravamo persino costretti a saltare i pasti. Ma eravamo felici. Vivevamo semplicemente, nessuno ci conosceva e noi eravamo assolutamente noncuranti degli altri. Ci interessava solo dar corpo ai nostri sogni e realizzare noi stessi", confessa oggi la poetessa rock ripensando a quei giorni, quando con l'aiuto dell'amico riuscì a finanziarsi un singolo, Piss Factory. Fu quello il primo tentativo di appallottolare parole con la musica; in quel momento non poteva permettersi che la chitarra di Tom Verlaine (Television) che rantolava in sottofondo, ma il risultato fu efficacissimo. Lei, al solito, disse proprio quel che pensava, quasi rapper ante litteram: "Lascerò quella fabbrica di merda, andrò a New York City e diventerò una star".

 

Per quanto intenso e accorato, il messaggio di Patti Smith ebbe solo un piccolo seguito negli Stati Uniti. Almeno fino alla pubblicazione di Because The Night, la canzone che scrisse con Bruce Springsteen (nell'album Easter) che fino a questo momento è il suo unico successo in hit parade. In Europa, al contrario, cominciò a maturare, fin dalla pubblicazione di Horses, un vero e proprio culto per l'artista, che culminò nei due megaconcerti tenuti a Bologna e a Firenze nel 1979 di fronte a un'oceanica platea. Nel momento di massimo splendore della sua arte la poetessa era già stanca di scendere nell'arena. In meno di cinque anni ritenne, non a torto, di aver esplorato tutte le possibilità del rock'n'roll, almeno quelle che le erano necessarie per veicolare il suo messaggio poetico, che comunque continuava a essere pubblicato anche in volumi. Fuori dall'arena l'aspettava Fred "Sonic" Smith (MC5), un sopravvissuto del rock. E la pretendeva in esclusiva.

 

"Quando suonammo a Firenze, nel settembre 1979", ricorda oggi, "sapevo che sarebbe stata l'ultima volta, anche se non dissi a nessuno che sarebbe stato un concerto d'addio. Tenni tutto per me. Lo dissi al mio gruppo solo alla fine del concerto. Ho quell'immagine ancora davanti agli occhi: noi seduti in un salotto dell'Hotel Minerva alle tre del mattino. Scoppiammo a piangere. Poi uscii in giro per la città, per cercare conforto sotto la grande statua del David, pensando alla mia vita. E per quanto dolorosa, penso ancora che sia stata una decisione giusta e buona. E soprattutto una decisione liberatoria. Il successo conduce all'egoismo, è seducente, ti vizia. Io invece avevo bisogno di crescere. Come artista, ma anche come essere umano. Ed è quello che ho fatto negli anni Ottanta. Ho condotto una vita dignitosa. Io sul rock'n'roll non ci ho mai contato.

 

Articolo inserito il 16.6.2009