Horses, nel 1975, si abbatté sul
rock'n'roll come un uragano. Un album in bianco e nero
prodotto da John Cale che riprendeva in mano le redini
della musica che si erano allentate, persino slabbrate per le
troppe tentazioni che aveva incontrato lungo la strada, dopo
la scomparsa di Hendrix, Joplin, Morrison.
A un soffio dal punk, con la brezza della new wave che
incominciava appena a soffiare, Patti Smith richiama il
rock ai valori essenziali: sobrietà, poesia, immediatezza,
carica eversiva. Tutto espresso senza mediazioni, come un
torrente che travolge. La maggior parte dei brani di Horses
supera di gran lunga la durata del formato-canzone che
l'industria del disco aveva fissato tra i tre e i quattro
minuti. Land è un fiume di suoni e di parole che
scaturiscono dall'urgenza di esprimersi senza freni, senza
mediazioni e senza peli sulla lingua. Una poesia che non
ammette maiuscole e punteggiature per mescolarsi a una
selvaggia forma di rock che sconvolge gli equilibri che
avevano annacquato la tradizionale spontaneità di artisti che
in vent'anni avevano fatto grande quella musica.
"Volevamo entrare
nell'arena del rock'n'roll. Volevamo riportare il rock'n'roll
nelle mani della gente. Volevamo che rock'n'roll e arte
fossero una cosa sola. Avevamo un sacco di idee, artistiche,
politiche. E volevamo realizzarle tutte", dice oggi l'artista
ripensando a quegli anni, quando approdò a New York con molte
poesie scribacchiate su un blocnotes e pochissime possibilità
di farcela. Determinata, fortemente motivata, aggressiva e
ricettiva come una fiera, totalmente devota ai figli della
cultura sotterranea della metropoli, da Warhol a Lou Reed, da
Nico ai Fugs - parlava di sé come "artista" ancor prima che
qualcuno l'avesse riconosciuta come tale. Compagno di
ambizioni era un ragazzo pallido e mingherlino arrivato anche
lui dalla provincia. Si chiamava Robert Mapplethorpe. Con lui
viveva in una stanza di Brooklyn che era stata trasformata in
un bicamere da un lenzuolo che fungeva da muro divisorio. Lo
racconta Patricia Morrisroe nella dettagliata biografia del
fotografo pubblicata due anni fa, in cui, inevitabilmente,
molto si parla anche della poetessa rock di cui Mapplethorpe
realizzò i ritratti più belli, finiti poi nelle copertine di
Horses, Radio Ethiopia e Easter.
"Conobbi Robert
quando aveva vent'anni ed era uno studente d'arte. Passavamo
tutto il tempo a fare progetti e a creare. Non avevamo una
lira. A volte eravamo persino costretti a saltare i pasti. Ma
eravamo felici. Vivevamo semplicemente, nessuno ci conosceva e
noi eravamo assolutamente noncuranti degli altri. Ci
interessava solo dar corpo ai nostri sogni e realizzare noi
stessi", confessa oggi la poetessa rock ripensando a quei
giorni, quando con l'aiuto dell'amico riuscì a finanziarsi un
singolo, Piss Factory. Fu quello il primo tentativo di
appallottolare parole con la musica; in quel momento non
poteva permettersi che la chitarra di Tom Verlaine
(Television) che rantolava in sottofondo, ma il risultato fu
efficacissimo. Lei, al solito, disse proprio quel che pensava,
quasi rapper ante litteram: "Lascerò quella fabbrica di merda,
andrò a New York City e diventerò una star".
Per quanto intenso e
accorato, il messaggio di Patti Smith ebbe solo un piccolo
seguito negli Stati Uniti. Almeno fino alla pubblicazione di
Because The Night, la canzone che scrisse con Bruce
Springsteen (nell'album Easter) che fino a questo momento è il
suo unico successo in hit parade. In Europa, al contrario,
cominciò a maturare, fin dalla pubblicazione di Horses, un
vero e proprio culto per l'artista, che culminò nei due
megaconcerti tenuti a Bologna e a Firenze nel 1979 di fronte a
un'oceanica platea. Nel momento di massimo splendore della sua
arte la poetessa era già stanca di scendere nell'arena. In
meno di cinque anni ritenne, non a torto, di aver esplorato
tutte le possibilità del rock'n'roll, almeno quelle che le
erano necessarie per veicolare il suo messaggio poetico, che
comunque continuava a essere pubblicato anche in volumi. Fuori
dall'arena l'aspettava Fred "Sonic" Smith
(MC5), un sopravvissuto del rock. E la pretendeva in
esclusiva.
"Quando suonammo a
Firenze, nel settembre 1979", ricorda oggi, "sapevo che
sarebbe stata l'ultima volta, anche se non dissi a nessuno che
sarebbe stato un concerto d'addio. Tenni tutto per me. Lo
dissi al mio gruppo solo alla fine del concerto. Ho
quell'immagine ancora davanti agli occhi: noi seduti in un
salotto dell'Hotel Minerva alle tre del mattino. Scoppiammo a
piangere. Poi uscii in giro per la città, per cercare conforto
sotto la grande statua del David, pensando alla mia vita. E
per quanto dolorosa, penso ancora che sia stata una decisione
giusta e buona. E soprattutto una decisione liberatoria. Il
successo conduce all'egoismo, è seducente, ti vizia. Io invece
avevo bisogno di crescere. Come artista, ma anche come essere
umano. Ed è quello che ho fatto negli anni Ottanta. Ho
condotto una vita dignitosa. Io sul rock'n'roll non ci ho mai
contato