Terrificata dal vederla sperperare le
proprie energie, dal vederla
prendersi anche tre amanti per volta, ero per lei come una
cugina di provincia. Ma non se ne rendeva conto. Era
costantemente, eternamente preoccupata per le sue emozioni, la
sua professione, la sua fede in ogni sorta di stranezze, la
sua passione per il mondo in genere e per certe creature in
particolare.
Ai miei occhi, era realmente il fragile
uccellino di cui portava il nome (Piaf in francese significa
"passerotto"), ma era anche la Jezabel la cui insaziabile sete
d'amore doveva compensare un senso di incompletezza, la sua
"bruttezza", come la chiamava lei, quel suo corpo fragile e
minuto che mandava allo sbaraglio, come Circe, le sirene e
Lorelei, la seduttrice che prometteva tutte le delizie del
mondo con quell'intensità senza pari che le era propria. Mi
faceva venire le vertigini con tutti quegli amanti che dovevo
accompagnare da un nascondiglio all'altro nei suoi
appartamenti.
Le resi i servigi che mi chiedeva.
La servii, pur senza mai capire il suo spaventoso bisogno
d'amore. Lei mi stimava; forse anche mi amava. Anche se credo
che potesse amare soltanto gli uomini. L'amicizia era un
sentimento vago, la cui ombra persisteva a volte nel suo
spirito e nel suo cuore. Non aveva mai il tempo di consacrarsi
esclusivamente ad essa. E faceva bene perché le sue riserve
non erano inesauribili. Le feci da vestiarista a teatro e al
Versailles, il night newyorkese in cui venne a cantare. Quando
la colpì in pieno la tragedia, mi occupai io dei problemi
pratici della sua vita. Dovevamo andare a prendere Marcel
Cerdan all'aeroporto; e lei dormiva, quando io venni a sapere
che l'aereo si era schiantato nelle Azzorre e che il campione
era morto.
Mi toccò svegliarla all'ora prevista e
comunicarle la notizia. Poi arrivarono medici e medicine. Ero
convinta che avrebbe annullato il suo spettacolo al
Versailles, ma nel pomeriggio, quando ne parlammo, volle
rispettare il suo contratto. Mi toccò obbedirle, ma ritenni
assolutamente necessario chiedere al direttore d'orchestra di
fare un taglio nel programma, di sopprimere cioè "Hymne à
l'amour". Poi andai con l'elettricista del locale a regolare i
proiettori per attenuare le luci. Infine rividi Piaf nel suo
camerino. Era calma e risoluta. Aveva deciso di cantare "Hymne
à l'amour".
A me,
come a tutti, faceva soprattutto paura un verso di
questa canzone: "Si tu meurs, je mourrais aussi" (Se muori
tu, morirò anch'io). Lei però tenne duro. Eseguì il suo numero
come se non fosse successo nulla. Non solo, ma non diede mai
l'impressione di essersi piegata, nonostante tutto, alla dura
legge dello show-business: "Lo spettacolo deve continuare". Si
servì del suo dolore, della sua sofferenza, della sua
tristezza per cantare ancora meglio del solito.
Le sere successive, restammo tutte due
sedute nella sua camera d'albergo immersa nel buio, tenendoci
per mano sopra il tavolo; lei ricorreva a tutti i mezzi che i
disperati conoscono per riportare Cerdan a sé. Esclamava
all'improvviso: "E' qui? Non hai udito la sua voce?". Io la
mettevo a letto, sapendo che prima o poi questa sua folle
disperazione sarebbe passata.
Passò.
Molto tempo dopo questi eventi,
Edith Piaf annunciò che si sarebbe sposata. Affrontai anche
questa tempesta. Bisognava che la cerimonia avvenisse in una
chiesa di New York e che io fossi la sua testimone; e non
essendo io cattolica, Edith Piaf fece in modo di procurarmi
una speciale dispensa. Tornò nel mondo dei suoi ricordi e
delle sue superstizioni infantili e in una buia mattina
newyorkese andai a vestirla. Entrando in camera sua, la vidi
seduta sul letto, completamente nuda, come voleva la
tradizione. La "tradizione" era naturalmente legata alla
convinzione che in questo modo la felicità non si sarebbe mai
allontanata dalla coppia degli sposi. Portava al collo una
catenella con la piccola croce di smeraldi che le avevo
regalato: pareva disperata, in quella tetra camera a migliaia
di chilometri dal suo paese natale.
Conclusa questa esperienza, tornò in
Francia. I nostri rapporti erano teneri; ma probabilmente non
era amore. Ho sempre rispettato il suo atteggiamento e le sue
decisioni.
Molti anni dopo,
quando prese a drogarsi, cessai di esserle fedele. Era più di
quanto potessi sopportare. Conoscevo i miei limiti, pur
comprendendo il suo bisogno di drogarsi. Ma comprendere non
significa sempre approvare. Che potevo fare? Nonostante tutti
i miei sforzi per aiutarla, incappavo contro quel muro
inamovibile che è la droga.
Ero disperata. Le droghe non erano
pericolose come quelle di oggi - non esisteva l'eroina né
altre sostanze altrettanto dannose - ma erano pur sempre
droghe e io rinunciai ad aiutarla. Il mio amore per lei
persisteva ma era diventato inutile. Edith non era sola. Come
ci si poteva aspettare, aveva accanto un giovane a lei devoto.
Abbandonai Edith Piaf come una bambina
perduta, che si rimpiangerà sempre, che porterò sempre nel
profondo del cuore.
PAGINA INSERITA
IL 2 DICEMBRE 2010