Diva espressionista

 

 

 

 

 

 

 

 

Fosse nata tra le due guerre, Marianne Faithfull sarebbe stata una perfetta Lotte Lenya. Non è stata una indimenticabile Jenny delle Spelonche nell' Opera da tre soldi, nel 1993 ? Sublime ne I sette vizi capitali, pubblicato su disco cinque anni dopo? Non c' è dubbio, d' altro canto, che se Lotte Lenya, la musa di Brecht & Weill, avesse avuto diciotto anni quando Beatles e Rolling Stones mettevano a soqquadro il pop sarebbe stata una perfetta Marianne Faithfull. Un bel tailleur pantalone, borsa elegante, passo aristocratico, gli occhi azzurri tuffati in un viso dove ogni secondo dei suoi sessantuno anni ha lasciato un piccolo segno. Oggi Marianne Faithfull è la diva espressionista per eccellenza. Un colpo di tosse da fumatrice incallita, poi un saluto cordiale con la voce roca, sgranata, diversa. Agli esordi, timida e bellissima, le canzoni le accarezzava soavemente. Oggi le graffia, le maltratta, le divora. Come Tom Waits. Stringe in mano una copia appena stampata del doppio cd Easy come, easy go, in cui canta classici come Solitude o Somewhere con un timbro rotto, disperato e ubriaco che è diventata la caratteristica della sua seconda vita d' artista. La copertina evoca immagini di dive jazz d' altri tempi, Blossom Dearie, Anita O' Day, Chris Connor, June Christy.

 

«Ho voluto esagerare, incidere un album ricco e lussuoso», spiega. Si guarda intorno, il salone è sovraccarico di stucchi dorati. Esita ad accomodarsi sulla poltrona vistosamente impero, troppo confortevole per una che della vita scomoda ha fatto un' arte. «Ho una lunga storia che mi lega all' Italia», mormora. «Ricordo quando mi chiamarono a cantare a Sanremo (C' è chi spera in coppia con i Camaleonti, 1967). Ripassavo il testo della canzone con mio padre, che parlava perfettamente la vostra lingua. La prima volta che visitai il paese, con la mia famiglia, ero una bambina. Papà mi diceva sempre, peccato che non sei portata per le lingue, tu insegui le note, come tua madre». Bella, innocente, sensuale, Marianne si buttò senza paracadute nell' effervescenza degli anni Sessanta. «Cosa volevo? Tutto», ammette, squassando la hall con una risata cavernosa. Tanto sesso, molta droga. E un precoce matrimonio con John Dunbar dal quale ebbe un figlio, Nicholas (è nonna dal '93), di cui perse subito l' affidamento (primo tentativo di suicidio). Era già moglie e madre quando finì nell' universo vorticoso dei Rolling Stones; un matrimonio naufraga in fretta quando un diavolo come Jagger ci mette la coda. Andò a letto (o amò? ma faceva differenza allora?) anche con Keith Richards e Brian Jones, «ma poi scelsi Mick». Quando la polizia fece irruzione nel loro appartamento in cerca di stupefacenti, lei si rifugiò sotto un tappeto di pelliccia per non farsi fotografare nuda. «Quell' episodio mi distrusse. Un rocker che si droga è cool, una ragazza una poco di buono». Le leggende metropolitane si moltiplicarono, una storia piccante di sesso al Toblerone tra Marianne e Mick fece il giro del mondo (molti dettagli li ha svelati nell' autobiografia Faithfull, pubblicata nel 1994).

 

 

 

 

 

Quando Andrew Loog Oldham, il manager degli Stones, decise di convocarla per incidere As tears go by, dovette mandarle un telegramma, i Faithfull non avevano ancora il telefono nella casa di Reading. In meno di una settimana la Françoise Hardy della swingin' London era pronta per le prime pagine. «Tutto era esaltante e frustrante allo stesso tempo», ricorda. «Non solo divertimento per quelli come noi; dovevamo lavorare, produrre. Ma ero molto determinata e non mollavo. In realtà non ero cresciuta pensando di fare la cantante. Volevo fare la musicista, l' attrice, l' interprete di musica classica e leggera. Tutte cose che in qualche modo sono poi diventate realtà, anche se in tempi diversi. Artista, questa era la parola magica che mi ronzava in testa. Che non significava successo, denaro, lusso. Essere cantante e attrice mi ha aiutato a fare quel che mi piace e in cui credo. Se non mi offrono una buona parte, ho sempre l' opportunità di fare un altro disco o un progetto teatrale. E quando arriva un copione interessante come Irina Palm, prendo la palla al balzo e congelo per un po' i miei interessi musicali. Sbaglia chi dice che per me il mestiere di attrice è un' occupazione secondaria. Al contrario, lo prendo molto sul serio. Il recital di sonetti di Shakespeare che ho tenuto qui a Milano è stata un' avventura emozionante. Anche se devo ammettere che per una della mia età è assai più facile trovare una buona canzone che un copione convincente. La maggior parte delle sceneggiature che mi propongono sono spazzatura, mi vorrebbero relegata in ruoli degradanti, avvilenti, e io non accetto». Il set di Irina Palm (una donna che per poter pagare le spese mediche di suo nipote masturba clienti in un peep show) l'ha riportata nella Soho maledetta dove consumò gli anni più bui della sua esistenza, in un appartamento di mattoni crudi, senza luce né acqua corrente. Eroinomane e anoressica, abbandonata dai suoi amici rocker, alla frenetica ricerca di una dose («Mi iniettavo eroina anche ventiquattro volte al giorno», racconta in Faithfull). Gli scintillanti party londinesi, le feste folli a casa di Dirk Bogarde, gli incontri con Dylan e Ginsberg, dischi e film d' autore, le spensierate trasferte a Tangeri con George Harrison e Pattie Boyd, i viaggi in Italia con Anita Pallemberg e i weekend romani col pittore Mario Schifano sembravano roba di un secolo addietro. Nei momenti in cui lo spacciatore non era a portata di mano, non le restava che bussare alla porta di Eric Clapton, che era nel suo stesso inferno. «Chi ancora mi frequentava, nel '72, cercava di terrorizzarmi raccontandomi di come erano morti Jim Morrison, Jimi Hendrix e Janis Joplin», ricorda, «ma quando sei in quello stato non accetti consigli, ti senti invulnerabile, non ti ammali nemmeno. Ho preso il primo raffreddore quando ne sono venuta fuori».

 

«Non basterebbe un libro per raccontare quei due anni. In poche parole: volevo scomparire dalla faccia della terra». Eppure non ha nessuno di quei segni evidenti che la droga lascia sul volto di alcune sue vittime. Nella frenesia dell' hotel milanese isterizzato per la sfilata del pomeriggio, ha più classe e self control di qualsiasi fashion editor. Solo la voce racconta gli abusi, risultato di laringiti recidive causate da cocaina, sigarette e whisky. «Che volgarità!», scrissero in molti quando la riascoltarono, alla fine degli anni Settanta. Invece quella nuova voce le ha salvato vita e carriera. Broken English, il disco della rinascita pubblicato nel 1979 che, aggressivo e slabbrato, catturava perfettamente l' essenza postpunk, è ancora considerato il suo capolavoro. «Fu l' occasione di mostrare al mondo quel che sono davvero. Tutti avevano dei preconcetti sul mio conto, la ragazzina che faceva bisboccia con gli Stones, la remissiva amante di Mick Jagger, la biondina che si era fatta trascinare nell' abisso dalla swingin' London. Così decisi di incidere un album drammatico, perfettamente nelle mie corde, sperando che arrivasse al pubblico come un pugno nello stomaco. Se in quel momento della mia carriera mi avessero impedito di fare un disco come Broken English, avrei chiuso per sempre con la musica. Avevo fatto tanto per gli altri, a quel punto dovevo fare qualcosa per me, qualcosa di cui fossi fiera... Ho avuto un' educazione musicale molto eclettica. So di non avere un bel timbro, elegante e perfettamente educato. Ma invecchiare ha fatto bene alla mia voce, me ne sono accorta quando ho inciso Strange Weather. Con l' ugola puoi anche fare i fuochi d' artificio come Barbra Streisand, ma a che serve se non riesci a comunicare delle emozioni?». La vita da sessantenne, racconta, è più dolce. Abita a Parigi col suo compagno, il produttore Francois Ravard. Gli ha dedicato il suo ultimo libro, Memories, dreams & reflections. «A volte mi sento una donna senza radici, che in ogni città trova qualcosa di piacevole», ammette perplessa. «Ho vissuto anche negli Usa e in Olanda. Ma Parigi è adorabile, le giornate scorrono serene, riesco a difendere la mia privacy. Ormai si va avanti cercando di esorcizzare le paure. Paura di ammalarmi, paura della morte...», dice alludendo al cancro che ha dovuto affrontare due anni fa e alla brutta epatite che l' anno scorso l' ha costretta a cancellare tutti gli impegni. «Per schivare le ossessioni cerco di vivere alla giornata. Sembra che funzioni. Adesso sono concentrata su Easy come, easy go. E sulla vita, che di per sé è già un bell' impegno».

 

Giuseppe Videtti - LA REPUBBLICA

Selezione articolo del 9 novembre 2008

 

 

ARTICOLI

Incontro con Marianne Faithfull (Il Mucchio Selvaggio) - Intervista di Guido Harari (Rockstar)

E' tempo di cantare l'amore (Jam) - L'alba dentro l'imbrunire (Rosario Bono)

 

RECENSIONI

Give my love to London (varie fonti) - Blazing Away (Rockstar + De Baser + Rolling Stone) - Before The Poison + Kissin' Time (Buscadero) Strange Weather + Dangerous Acquaintances (Il Mucchio Selvaggio)

Live from Hollywood / Dvd (Rosario Bono)