Si scioglie la "ragazza di ghiaccio"
Biografia
di Luciana
Peverelli - SORRISI E CANZONI n.7 - 16
febbraio 1958 - 3^ parte
Philippe Lemaire - Cominciano le riprese del film.
Juliette che ha messo in questa sua nuova attività tutto il
suo impegno e tutta la sua volontà, comincia a sentirsi a suo
agio, ad essere affascinata dalla macchina da presa e da
questa nuova arte che comincia a scoprire. Convinta che si
tratti di una parentesi senza seguito, continua ad occuparsi
delle sue canzoni. A tutti ripete: «C'è una sola cosa che
conta veramente per me, al mondo. Le mie canzoni. Tutto il
resto passa in seconda linea». Un giorno deve provare una
scena d'amore con Philippe Lemaire. Il regista non è
soddisfatto. Philippe è nervosissimo. «Mi sembra di
abbracciare una donna di ghiaccio. Mi fate paura, Juliette.
Perché non vi abbandonate? Non mi è possibile essere naturale
se mi respingete con lo sguardo, con tutto il vostro
atteggiamento. Possibile che non sappiate fingere?». Juliette
fa forza a se stessa, cerca di essere "attrice". Philippe
Lemaire la stringe tra le braccia, la bacia sulla bocca
lungamente, appassionatamente, come volesse svegliare qualcuna
che è morta. Juliette ha un lungo brivido, sente le gambe
tremare, uno strano desiderio di abbandonarsi, di distendersi,
di piangere. Qualcosa che non conosceva l'ha improvvisamente
presa, è come una magia dalla quale non riesce a sottrarsi.
Philippe Lemaire è davanti a lei, pallido, tremante, la guarda
sbigottito nei profondi occhi neri come la vedesse per la
prima volta... «Benissimo! - dice il regista - Ripetiamo la
scena una volta ancora
». «Non posso, mi sento poco bene...»,
balbetta Juliette e fugge dal set. Corre in camerino, si
strucca, si veste rapidamente, esce. Ha bisogno di camminare
per distrarsi, ed i suoi passi la conducono finalmente oltre
il "pont des Arts", verso il suo quartiere, quasi lei vi
volesse cercare rifugio, protezione, difesa contro un
sentimento ignoto sbocciato improvvisamente in lei, e che la
sconvolge tutta.
Philippe Lemaire altrettanto turbato da una
sensazione mai provata, dopo avere un po' lottato con sé
stesso, va a bussare al camerino di Juliette. Vuole domandarle
perdono di quel gesto impulsivo, un po' brutale, che forse
l'ha offesa. Nessuno risponde, ma il camerino di Juliette è
aperto, ed egli osa entrare. Il camerino è vuoto. Allora, con
il rossetto, sulla tovaglietta bianca che copre la toilette
Philippe scrive febbrilmente senza sapere nemmeno lui quello
che fa "Juliette, ti amo, ti amo, ti amo...". Il giorno dopo
Juliette trova il suo camerino inondato di fiori. Sono fiori
di primavera: lunghi rami di lillà, ranuncoli e anemoni. La
cameriera non sa più dove metterli: non vi sono vasi bastanti
e più che una serra, il camerino sembra un giardino di
campagna. Juliette legge le parole, vede i fiori, e ride, ride
come una bambina. Forse è la prima volta che ride così. Quando
Philippe si presenta a lei timido e imbarazzato, non più con
l'aria di un fatale seduttore ma con quella di un ragazzo al
suo primo amore, ella lo accoglie con dolcezza, quasi con
tenerezza, e accetta il suo invito a colazione. Siedono alla
terrazza di un caffè alla Porte Dauphine. Migliaia di
passerotti, socievoli, amichevoli, svolazzano intorno a loro,
si posano sulla spalliera delle seggiole. Sciolto
dal "terrore" che Juliette gli ha
sempre ispirato, Philippe si dimostra quello che è: un ragazzo
lieto e avido di vivere, pieno d'entusiasmo, di fiducia nella
vita, anche se un po' frivolo, un po' egoista. Juliette
diventa con lui quello che non è mai stata: una ragazza
felice, una ragazza spensierata, una ragazza che si sente "al
suo primo amore".
Proprio come nei classici romanzi
dell'Ottocento:
«Dall'odio all'amore non c'è che un passo:
non ti potevo sopportare, e adesso vedi... mi sembra già di
amarti. Juliette, io mi domando come ho fatto a vivere prima
di incontrarti. Sei l'unica vera donna che ho incontrato sul
mio cammino... Juliette, cara, ti adoro, ti adoro...». Nessuno
le ha mai parlato così, nei bistrot di St. Germain des Pres.
Parlare d'amore e di adorazione così puerilmente, così
banalmente! Nessuno davvero l'avrebbe osato. Ma quando
Philippe e Juliette si separano, lei avrebbe voglia di danzare
nei viali verdi e oro del Bois. Proprio quella sera, alle sei,
ha un appuntamento con Charles Trenet. In un piccolo bistrot
con le tovaglie di carta, con le tende a quadretti. Appena la
vede entrare Trenet la guarda strabiliato.
«Che cosa ti è
successo? Sembri un raggio di sole...». «Sono felice, Charles,
felice... Devi scrivere una canzone per me». «Sono qui per
questo». «Ma deve essere una canzone felice, come lo sono io
oggi». Sull'angolo della tovaglia Charles Trenet scrive una
canzone intitolata "Coin de rue". Rimarrà per sempre la
canzone preferita di Juliette anche quando la vita avrà spento
questo suo sogno radioso. Quel giorno ella trova le parole di
Trenet così belle, che sembra non le scriva abbastanza
rapidamente. Ha fretta di conoscere il seguito di quella
meravigliosa storia d'amore che Trenet stava inventando. «Ecco
- dice - quando ha finito - si tratta di un amore dei quindici
anni, puro e senza macchia come tutte le cose di questa età.
Gli amori dei quindicenni sono forse i più sinceri, quelli di
cui si conserva il miglior ricordo. E quando si invecchia, si
ritrova sempre con emozione e con piacere la cornice di questi
primi amori. E' come se tu oggi avessi quindici anni,
Juliette, ed è per te che ho scritto questi versi. Dopo tutto,
quando si ama veramente, si hanno sempre quindici anni».
Juliette gli stringe forte le mani. «Ci voleva un poeta come
te per riuscire a rendere una storia d'amore così
affascinante, con tanta semplicità, con tanta tenerezza, con
la poesia che è in tutte le tue opere. Non si può mai restare
insensibili alle tue canzoni, ma fra tutte, per me, la più
bella rimarrà certamente "Coin de rue". Non
la dimenticherò mai, Charles, la canterò sempre!».
Per
diciotto giorni Philippe e Juliette vivono in una specie di
incantesimo, in uno stato di euforia che fa ridere e
sbalordire i loro amici, i loro compagni. A Saint Germain des
Pres tutti sono in allarme, inquieti. Che accadrà? Juliette li
ha dimenticati? Oppure finito il capriccio, l'infatuazione ed
il film, tornerà al Tabou, alla Rose Rouge? St. Germain e i
compagni non si rassegnano all'idea di aver perduto la loro
ninfa egeria, il loro idolo. E, una sera, mentre la
riaccompagna a casa, Philippe le dice febbrilmente:
«Juliette, non posso più sopportare di vivere lontano da te,
nemmeno per un minuto. Perché non ci sposiamo?». La domanda è
così inattesa che Juliette non sa cosa rispondere. E'
sbalordita, è come se si trovasse trasportata come per
incantesimo in un mondo nuovo che non conosce. «Vuoi davvero
diventare mio marito, Philippe? Ma sei sicuro che mi amerai
per sempre, che sarai il marito che voglio?». «Ti amo...», risponde Philippe.
«E' una meravigliosa, incantata storia d'amore - pensa
Juliette - del tutto simile a quelle che ho letto, di cui ho
sentito parlare, e alle quali non ho mai creduto».
Felici come bambini - Invece di rientrare
a casa, va con Philippe in un piccolo caffè lungo la Senna e
gli parla lungamente. Deve raccontargli tutto di sé, della sua
infanzia. Lei è leale e vuole che lui la conosca bene.
«Non
sono andata a St. Germain des Pres per snobismo. Allora, non
era ancora di moda. Soltanto perché era il quartiere più
economico di Parigi. E ho scelto di cantare, proprio per uno
scherzo. Volevo far l'attrice, sai, come te. Non avevo ancora
diciotto anni quando mi fecero debuttare sulla scena, in una
commedia di Roger Vitrac, intitolata "I ragazzi al potere".
Michel del Re aveva montato quel primo spettacolo da Agnes
Capri, con dei debuttanti, e tutti noi ci occupavamo anche di
dipingere le scene, di costruirle con della carta, carta da
macellaio. Figurati che interpretavo una donna di trentacinque
anni, con un abito della mia nonna in satin nero, guarnito da
piccole rose ricamate a mano, le maniche gonfie. E sai che mi
dissero? Che in quella parte ero "dolce come una tigre". Non
riuscivo a liberarmi dalla mia personalità. Ma sono una tigre.
Philippe, in realtà, soprattutto quando amo». Il giovane
l'ascolta parlare e parlare, affascinato dal suono caldo della
sua voce, dagli immensi occhi di velluto. E lei continua,
febbrilmente: «Lo sai che a quell'epoca ero grassa? Rotonda
così... E sai perché? Mangiavo soltanto pane. Sai perché
tenevo i capelli lunghi? Per aver meno freddo intorno al
collo. Me ne servivo come di una sciarpa. E sai chi ha
scoperto il "Tabou"? Sono stata io... Un giorno con degli
amici che studiavano recitazione con me, stavo in caffè. C'era
Vadim, ricordo, e Christian Maquard. Appoggiai il mantello,
l'unico che possedevo, alla rampa di una scala. Scivolò giù e
io scesi i gradini della scala misteriosa, per riprenderlo e
così trovai una cantina. C'erano maschere negre appese alle
pareti: mi dissero che un tempo si ballava lì dentro, e delle
ragazze facevano clandestinamente dello striptease... Così la
polizia l'aveva fatto chiudere. Io risalii, gridando "C'è un
buco per noi, ragazzi...". In un lampo avevo capito che una
cantina poteva servire a qualche altra cosa oltre che a
proteggerci dalle bombe o a conservare bottiglie».
«Insomma, sei tu che hai inventato le cantine esistenzialiste?
Ebbene, ho il coraggio di sposarti ugualmente».
«Philippe,
sono una ragazza abominevole: molte volte sto muta per interi
pomeriggi, e poi sono intransigente. Ho molto coraggio però:
lo devo a mia madre che è un'eroina. Lo sai che è riuscita ad
evadere dal campo di concentramento e che ha combattuto,
facendosi paracadutare nei luoghi più pericolosi?».
«Se hai
coraggio di sposarmi, è già una grande prova».
«Philippe, ho
amato, come tutte le ragazze della terra: ho avuto una breve
ma intensa simpatia per Astruc... forse ho amato un po' anche
Niko, il proprietario della Rose Rouge».
«Ah, il bel bruno
dagli occhi azzurri, il bel greco che ora sta per sposare
Anouk Aimée? Ebbene, Juliette, anch'io ho amato tante donne!».
«Sì, lo so. Corteggiavi Irene Galter e io ti odiavo... Ma
adesso ti amo, Philippe, la mia esistenza ha ripreso vita e
calore. Io ho cominciato a fare i sogni più folli per merito
tuo, e insieme i sogni più stupidi e banali. Forse i più
umani, quelli che non credevo possibili. Voglio un marito, un
focolare, dei bambini. Voglio uscire dal mondo dei pazzi per
entrare nel mondo delle persone normali. Ma Philippe,
ricordati che ho molto sofferto per il divorzio di mio padre e
mia madre. Se voglio un marito, lo voglio per tutta la vita». «Avrai un marito per tutta la vita»,
le promette Philippe.
Allora, improvvisamente, Juliette, nel piccolo caffè sulla
Senna si mette a piangere.
«Ho bisogno di essere amata... Ho
sempre avuto l'impressione che nessuno mi ami, in fondo. Non
dimenticherò mai la serata a Beziers, quando dovevo cantare
nell'Arena, davanti a diecimila persone, e la scena aveva
trenta metri di profondità. Bisognava percorrere quei trenta
metri per arrivare al microfono, sotto la luce livida dei
riflettori. Io, vestita di nero, con i capelli sulle spalle,
pallida come uno spettro... Ricordo sempre il momento in cui
entrai in scena e diecimila spettatori mi coprirono di
ingiurie, mi trafissero con i loro fischi... Cantai una
canzone, Philippe, e poi scoppiai a piangere e scappai
perdendo le scarpe... Capii che la gente non mi amava. Nessuno
mi ha mai amato veramente: forse perché porto i pantaloni,
perché ho i capelli arruffati, perché tiro sempre il golf
mentre canto, perché faccio troppo fracasso la notte a St.
Germain e impedisco alla gente di dormire».
«Ma adesso è
tutto finito. Io ti amerò, tutti ti ameranno». I mesi che
precedettero le nozze, Juliette euforica e felice, cominciò
subito a recitare la sua parte di padrona di casa,
ammobiliando l'appartamento di rue de Berri, dove lei e
Philippe avrebbero passato la luna di miele. A St. Germain,
tutti erano furiosi. La musa si "imborghesiva". La strana
creatura vestita di nero, che Cocteau vedeva come il simbolo
della morte e della sfortuna, era diventata una radiosa
giovanetta in attesa del suo sposo.
Il matrimonio - Il giorno del suo
matrimonio, Juliette era proprio una sposina rossa di
emozione, deliziosamente bella in un abito bianco e corto
creato per lei da Dior. Ognuno dei trecento invitati per la
tradizionale colazione aveva ricevuto un invito originale, del
tutto simbolico: un cartoncino tagliato in forma di due mani
unite: quelle di Philippe e di Juliette. Invano, però tra
quegli amici si sarebbero cercati i compagni degli antichi
tempi. Juliette voleva dimenticare il suo passato. Philippe
Lemaire le offrì quel giorno una sottile collana di diamanti,
e se gli antichi compagni avevano disertato quella "festa
borghese" tutta Parigi stupefatta e intenerita, assisteva,
almeno "spiritualmente" a quelle nozze. C'era soltanto
qualcosa che non funzionava già in quel primo giorno. Juliette
Gréco, che sapeva bene quello che stava facendo, aveva deciso
di essere la musa di un solo uomo. Ma Philippe, giovane,
svagato, anche se innamoratissimo, non sapeva molto bene
quello che stava facendo e non sapeva soprattutto di quale
uomo Juliette avrebbe voluto essere la musa. Abbracciandola,
le nuove amiche le domandavano:
«Hai smesso di lamentarti e di gridare "J'hais le dimanche"»
(Odio la domenica) e lei rispondeva, ridendo: «Naturalmente.
La domenica sarà l'unico giorno in cui io e Philippe
riposeremo, e staremo insieme, a goderci la nostra casetta.
Quindi il giorno più felice della settimana». Così, per aver
incontrato un ragazzo biondo, allegro, la musa
dell'esistenzialismo (filosofia piuttosto amara) rinunciava
alla sua condizione di dea, e si metteva ad amare umanamente,
interamente, condannandosi così a soffrire. A soffrire aveva
già imparato, ma in modo del tutto diverso. Colei che
incarnava, per la Francia e per l'estero la giovinezza del
dopoguerra, aveva accettato di esprimere l'angoscia,
l'inquietudine, la tristezza, nelle sue canzoni. Ma le
sofferenze che aveva saputo esprimere non avevano mai toccato
veramente il suo cuore. Colui che sposava, invece, non era
passato attraverso le stesse crisi e le stesse sofferenze. La
fortuna era venuta a lui molto più facilmente. Se aveva avuto
delle difficoltà, non se ne ricordava più. Comunque, non era
mai stato solo. Le donne non domandavano di meglio che di
circondarlo. Per Juliette quel matrimonio doveva essere
qualcosa di sacro. Per Philippe era soltanto la realizzazione
di un capriccio, di una infatuazione, qualcosa di mondano, di
pubblicitario, oltre che di amoroso. Pochi mesi dopo le nozze
Juliette si ammalò. Aspettava un bambino, ma i dottori le
lasciavano poca speranza di riuscire a portare a termine la
gravidanza. Juliette era disperata: ma decisa a tentare di
tutto e a rinunciare a tutto pur di avere la sua creatura.
Abbandonò il suo lavoro, i suoi impegni, un contratto con il
"Boeuf sur le Toit", un altro con il grande music-hall
"Bobino", l'impegno per un film. Si mise a letto e incominciò
a sferruzzare, a preparare golfini e maglie per il piccolo.
Philippe Lemaire avrebbe dovuto trasformarsi in infermiera, in
quel periodo, ma questo ruolo non era proprio nel suo
temperamento. Quando stava qualche tempo nella camera di
Juliette non gli riusciva di star fermo. Girava qua e là,
sbadigliando, spostando oggetti, facendole venire le
vertigini. Poi, appena il telefono squillava, vi si
precipitava:
«Juliette, devo assolutamente andare a un cocktail!
Juliette, bisogna che assista ad una prova cinematografica...
Juliette, mi aspettano a pranzo gli amici...».
Articolo inserito il 26.5.2011
FINE TERZA PARTE (continua)
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