Ha l'apparenza inerme e minuscola
d'uno scricciolo, la piccola donna in nero che mangia a
un tavolo vicino al mio. Sanremo affonda nel tepore del
meriggio e il festival è un pianeta lontano, inutilmente
chiassoso. Ma attenzione: sa anche indossare la fierezza
pugnace di un'aquila, Giuni Russo, se c'è da
difendere la sua musica che è amore, preghiera, approdo
al cielo dall'indifferenza dei cretini e dalla futilità
dei tempi. Morirò d'amore, si intitola la canzone
che Giuni canta qui a Sanremo, e che è, con
quella di Nino D'Angelo, la più bella perché è la
più emozionante, cioè la più vera. Maltrattata dalle
giurie, ma che importa: "Stamattina mi ha telefonato
Franco Battiato, mi ha detto: "Dimentica la
graduatoria, è così irrilevante, e pensa alle bellissime
cose che si stanno scrivendo su di te: questo sì che
conta"". "Franco è un saggio - le dico - bisogna
ascoltarlo". E lei sorride felice, fin nel profondo dei
suoi immensi occhi neri, quelli delle donne di Sicilia
che sanno come far convivere la dolcezza e l'orgoglio,
il sogno e il mestiere di vivere. Sa bene che esistere è
soprattutto combattere: l'ha sperimentato in un carriera
tutta in salita, affrontata con la candida temerarietà
degli idealisti. E col dono di una voce che può cantare
tutto: è passata da Castrocaro - vincitrice nel '67 - a
Donizetti, Bellini e Verdi, dalla
levità balneare di Un'estate al mare al cabaret
petroliniano, dal cha cha cha ai testi di Borges,
Teresa D'Avila, Giovanni Della Croce. E
poi Battiato, Tenco, l'Oriente vicino e
quello estremo, Rumi e Geremia, Edith
Stein e la tradizione ebraica. Sempre in bilico tra
l'amore e il misticismo, che riescono ad essere sinonimi
quando "sono qualcosa che hai dentro, così profondi che
non riescono a non venir fuori", confessa: e di tutti i
possibili autoritratti è quello che le assomiglia di
più. Del resto, amore e misticismo si intrecciano nel
suo nuovo album, che si intitola appunto Morirò
d'amore: brani suoi e di Maria Antonietta
Sisini, storica coautrice delle sue canzoni fin dai
tempi di Energie, l'album-capolavoro del 1981
dove la sua voce di soprano trovava nei suoni di
Battiato drappeggi preziosi. "Se lo riascolto lo
trovo ancora attuale - commenta - solo che alla mia casa
discografica volevano i successi da hit parade, e così
me ne andai". Eccola, dunque, la Giuni più
inarrendevole, lo scricciolo che sa tramutarsi in
aquila. Reduce da una malattia di quelle che non
perdonano, eppure fronteggiata con piglio guerriero e
candida fiducia, e ovviamente sconfitta: anche se lei
non vuole che si sappia, c'è di mezzo l'orgoglio, e la
tutela caparbia d'una privatezza che appartiene solo a
lei. Meglio parlare di musica. Della sua carriera
carsica, fatta di approdi, eclissi, ritorni. Del
concerto, per esempio, che l'ha vista in trionfo, un
anno fa, all'Auditorium di Milano, sonorità antiche e
sperimentalismi elettronici a vestire una voce fatata.
"Stavo male - racconta - pensavo: non ci sarà nessuno,
in quella platea sterminata. E invece la sala era piena,
e come apparvi scattò l'ovazione". Ora è al festival,
per far conoscere questo nuovo album "con quattro pezzi
arrangiati da Battiato e uno di essi, Amore
intenso, che è davvero un'eruzione, una lava
d'amore". Le giurie? "E' la critica che mi interessa,
molto più della televisione e dei voti. E poi lo sa che
cosa dice quel nostro proverbio? Dice: il raglio degli
asini non sale in cielo".